Città del Vaticano , martedì, 13. agosto, 2019 10:00 (ACI Stampa).
Non era solo il Paese del Cardinale Jozef Mindzenty costretto in esilio nell’ambasciata degli Stati Uniti di Budapest. L’Ungheria del periodo della Cortina di Ferro è stato anche il laboratorio della diplomazia della Santa Sede per i Paesi del blocco sovietico. Una politica che è stata descritta come Ostpolitik, con molte accezioni negative. Ma che in realtà era frutto del paziente lavoro di Agostino Casaroli, al tempo viceministro degli Esteri vaticano, che al termine di Ostpolitik non si abituò mai e non lo chiamò nemmeno martirio della pazienza, come invece fu chiamata la sua biografia.
Ma perché l’Ungheria fu un laboratorio? Perché anche lì ci fu un accordo, riservato, sulla elezione dei vescovi. Anche in quel caso, ci fu un Cardinale, Mindszenty, che protestò duramente con la linea del governo. Anche in Ungheria, si comprese la situazione molto tempo dopo.
Un po’ di storia è fornita dal libro “Storia religiosa di Ungheria”, e in particolare in un saggio di Laszlo Danko.
Ma andiamo con ordine. L’anno cruciale fu il 1945. Era finita la guerra, e nello stesso 29 marzo morirono Jusztinian Seredi, cardinale e primate di Ezstergom, e il vescovo di Gyor, Vilmos Apor, a seguito delle ferite che gli erano causate dalle sparatorie di soldati sovietici ubriachi. Il 3 aprile il nunzio Angelo Rotta fu costretto ad abbandonare il Paese.
Gli Alleati non protestarono, segno che l’Unione Sovietica aveva mano libera nel Paese. Cominciò una campagna durissima, che però non fu compresa pienamente dai Gesuiti sul posto. Ma la Santa Sede aveva capito, e la nomina di Mindszenty a primate di Esztergom era un chiaro segnale: lui aveva dato prova di sé contro l’occupazione nazista e non era mai stato tenero nemmeno con i comunisti. Fu subito vittima di campagna stampa, mentre nel 1946 venivano sciolte le associazioni cattoliche. Si tentò di abolire l’insegnamento della religione a scuola, ma non fu possibile per via delle proteste.