Ovviamente, si era pensato anche ai “missionari lunari”, che – nelle parole del reverendo Clifford Stevens – sarebbero stati come quei sacerdoti che erano al seguito di Magellano, Colombo e i “Vichinghi che esplorarono lo sconosciuto oceano occidentale”.
Non solo. La riflessione era arrivata a pensare anche a una possibile liturgia lunare, di cui parlò un articolo di Constance Parvey, il quale mise in luce che la liturgia lunare avrebbe dovuto avere molta enfasi sul trascendente perché i coloni lunari non avrebbero avuto il problema della povertà e dunque “principalmente, i nostri bisogni di base sono psicologici più che economici, hanno a che fare più con l’onestà, l’integrità e la compassione che con i problemi dell’essere poveri”.
Fantascienza? Forse. Eppure il contatto con lo spazio provoca davvero bisogno di trascendenza. L’Apollo 8, prima missione destinata ad un volo orbitale intorno alla luna, venne lanciata il 21 dicembre 1968, con un equipaggio di tre persone: il comandante Frank Borman, il pilota del modulo di comando James Lovell e il pilota del modulo lunare William Anders. Il 24 dicembre, tre giorni dopo la partenza, vanno indiretta dall’Apollo 8. E i tre decidono che non ci sono parole umane per descrivere l’esperienza. Alla vigilia di Natale, decidono di leggere i primi dieci versetti del primo Capitolo della Genesi. Leggono, insomma della creazione.
Quando, nel 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin si troveranno sulla superficie lunare in attesa di fare i loro primi passi sul satellite, Aldrin fece ancora di più. Lui, tra i consiglieri della Webster Presbyterian Church, si era fatto dare dal suo pastore pane e vino consacrati e li aveva portati nello spazio. E così, mentre attendeva, Aldrin chiese a tutti, sulla terra e a bordo, alcuni momenti di silenzio, invitò “tutti coloro che ascoltano, dovunque e chiunque siano, a contemplare per un momento gli eventi delle ultime ore e di ringraziare ognuno a modo suo”. E poi, versò il vino lentamente, ad un sesto della gravità terrestre, e ricordò l’ultima cena di Gesù: fu il primo pasto mai consumato su suolo lunare.
In fondo, gli uomini di fede hanno sempre tenuto gli occhi verso il cielo. Lo faceva Abramo, in cammino da Ur, cui Dio donava una discendenza che non si poteva contare come non si contavano le stelle. Lo facevano gli indigeni della Terra senza male, quelle grandi distese del Sudamerica dove i gesuiti arrivarono e costruirono le reducciones, vere e proprie città-Stato da dove si osservavano gli astri. Perché, in fondo, anche Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia del Gesù, scrisse nella sua autobiografia che “osservare le stelle dà la più grande consolazione”.
E allora non sorprende che molti dei crateri lunari sono chiamati con i nomi di gesuiti.
Fu il gesuita Giovanni Riccioli a mappare e dare nomi ai crateri lunari, e in cima alla sua mappa scrisse: “Né gli uomini abitano la luna, né le anime migrano lì”.
Uno delle più grandi formazioni di crateri della luna prende il nome dal gesuita Christoforus Clavius (1538-1612), genio matematico e astronomico che fu tra gli ideologi del calendario gregoriano e che fu definito “l’Euclide del XVI secolo”. Galileo Galilei si ispirò alle opere di Clavius.
Il precursore della teoria atomica fu il gesuita Roger Boscovich (1717-1787), che persuase il Vaticano a rimuovere i libri di Copernico (tra l’altro, un sacerdote) dalla lista dei libri proibiti. Il gesuita Angelo Secchi (1818-1878) fu il primo a classificare le stelle sulla base delle spettroscopie, e costruì un Osservatorio sul tetto della chiesa di Santt’Ignazio a Roma.
Logico che anche l’Osservatorio vaticano venisse affidato ai Gesuiti, che prima da Castel Gandolfo e ora dall’Arizona osservano e classificano le stelle. Il gesuita Richard D’Souza e il suo collaboratore dell’Università del Michigan Eric Bell hanno recentemente scoperto che la vicina galassia Andromeda è in realtà il risultato della fusione con un’altra galassia avvenuto circa due miliardi fa.
La Specola Vaticana celebra i cinquanta anni dell'allunaggio con una dichiarazione in cui sottolinea che "ci sono molte importanti lezioni dall'allunaggio che possiamo avere a cuore oggi", e la più importante è che "c'è un senso di speranza che gli esseri umani possano raggiungere ciò che sembra essere impossibile quando si impegnano", e non importa se il problema sia "la povertà globale o il cambio climatico".
E poi, l'altra lezione è che "dal sorgere della terra visto dalla luna, siamo chiamati a vedere il nostro posto nell'universo da una diversa prospettiva", e come uomini di fede "questo ci ricorda che, quando confiniamo la nostra comprensione di Dio solo al pianeta terra, abbiamo fatto l'immagine di Dio troppo piccola".
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Dalla terra si guarda al cielo, ma sempre con lo sguardo rivolto a Dio. Non è un caso che Paolo VI dedicò alcune delle sue riflessioni più belle proprio allo sbarco della luna. Rispondendo preventivamente a quanti si chiedevano “come può lo studioso entrare nella schema dogmatico e rituale della vita cattolica l’immenso patrimonio delle scoperte scientifiche” e come può, con tutte queste scoperte “rimanere intatta la religione tradizionale, racchiusa in una mentalità statica e di altri tempi”.
Ma per Paolo VI non c’erano dubbi: “Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e il fine, non solo per i destini dell’uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza”.
Insomma, ricordava Paolo VI, non c’era da temere che “la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste che l’uomo va facendo del creato e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta. Se saremo con Cristo, saremo nella via, saremo nella verità, saremo nella vita”.