L’arcivescovo sottolinea che è proprio così, perché “ci sono dei dati nuovi riguardo la visita di San Giovanni Paolo II. Ci sono, è vero, gruppi fondamentalisti, e al tempo di San Giovanni Paolo II non si pensava potesse succedere. Eppure, il dialogo si porta avanti”.
La gerarchia ortodossa, d’altro canto, è ben predisposta all’incontro. Il diacono Ioan Mavrichi, consigliere patriarcale e secondo portavoce del Patriarca Daniel, sottolinea che l’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Daniel “è molto importante, come importante è la comunità cattolica qui. Le persone ricordano l’incontro tra San Giovanni Paolo II e il Patriarca Teoctist e hanno grandi aspettative”.
In più, la decisone di San Giovanni Paolo II di fare la prima donazione per la costruzione della nuova cattedrale “fu un gesto simbolico e di grande significato per noi ortodossi: abbiamo atteso una nuova cattedrale per cento anni”.
La Chiesa ortodossa romena fu fondata nel 1872, e Daniel ne è il sesto patriarca. Ma la tradizione ortodossa affonda le radici nella nazione, ancora prima che Valacchia, Moldova, Transilvania si unissero a formare quella che è la Grande Romania. Gli ortodossi in Romania sono l’86,6 per cento della popolazione.
Ovunque, a Bucarest, si respira la presenza del cristianesimo. Non c’è quartiere senza una piccola chiesa, anche lì dove il regime di Ceausescu è arrivato a spazzare via tutto, a buttare giù interi quartieri della città che era conosciuta come piccola Parigi per mettere su edifici governativi e palazzi neoclassici.
“Sono convinto – dice l’arcivescovo Robu - la Romania può essere catalogata come un Paese religioso, anche se i segni della secolarizzazione sono molto forti. Ci sono dei cambiamenti nella mentalità della gente, ma ci sono anche delle tradizioni che sono molto rispettate. Tra queste anche la religione presa così semplicemente, non secondo i libri della teologia, ma secondo il vissuto del popolo. E la religione è rispettata e vissuta nella famiglia, nella vita personale. Una cosa è chiara, che l’elemento religioso è molto presente nella gente romena”.
C’è la figura di un beato che farà da sfondo alla tappa di Papa Francesco a Bucarest. È quella d Vladimir Ghika (1873 – 1953), un vero apostolo del Vangelo nella Bucarest che si risvegliava comunista dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Era una vocazione che gli veniva da lontano, tanto che sempre si era occupato della formazione dei giovani: fu sua la generazione che si oppose al comunismo. Non fu un caso che monsignor Ghika fu arrestato nel novembre 1952, il giorno successivo ad uno degli incontri di studio teologico che animava.
Ed era un arresto scontato: il beato Ghika avrebbe potuto lasciare il Paese nel 1948, con la corte del re Mihai, ma scelse di rimanere nel Paese per sostenere il suo popolo. Quando gli fu impedito di predicare, predicava suonando l’organo.
Una sua reliquia è nella cattedrale di San Giuseppe, lì dove Papa Francesco celebrerà messa nella sua prima giornata in Romania.Nella cattedrale c’è anche una reliquia che assume ancora più significato se si considera la cronaca attuale: è un pezzo della corona di spine, che monsignor Ghika portò direttamente dalla Basilica di Notre Dame a Parigi, dove è custodita e dove è stata salvata dalle fiamme del 15 aprile 2019.
Fu l’arcivescovo di Parigi a regalare a padre Ghika un frammento della corona di spine poco dopo la sua ordinazione nel 1923. Da allora, padre Ghika ha portato la reliquia sempre con sé.
Ci sono miracoli attestati avvenuti grazie all’intercessione della reliquia, su preghiera di padre Ghika: negli anni 1926-1927, padre Ghika aveva pregato e benedetto con la reliquia una suora che aveva sofferto di ustioni gravi su tutto il viso, che scomparvero quasi completamente il giorno successivo.
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Monsignor Ghika riuscì a portare la reliquia con sé anche nella prigione d Jilava dopo essere arrestato dai comunisti, e la reliquia non solo non fu trovata nonostante varie perquisizioni, ma fu mezzo di intercessione per le guarigioni di Marcel Petrisor, la professoressa Florea Costache e padre Iosif Gunciu.
Solo nel novembre 1953, la corona fu scoperta e confiscata. Dopo la sua morte, la reliquia fu recuperata da Ionel Cofariu, suo figlio spirituale, e la consegnò a padre François van Der Jonckheyd, che serviva presso la chiesa del Sacro Cuore, da dove ora ogni anno parte una processione che nella domenica delle Palme porta i fedeli fno alla cattedrale di San Giuseppe. Anche monsignor van der Jonckheyd fu arrestato nel 1957, e la reliquia da allora passò di mano in mano, fino al 1993, quando fu consegnata all’arcivescovo Ioan Robu di Bucarest.
Sono queste le storie che si incrociano nella Bucarest che sarà visitata da Papa Francesco. Storie che emergono in un Paese che è libero da soli 30 anni, lì dove cattolici e ortodossi hanno vissuto quello che il Papa ha chiamato in più occasioni “ecumenismo del sangue”.
“L’esperienza comunista – racconta il diacono Mavrichi – fu traumatica per gli ortodossi. Eppure abbiamo molti esempi di persone che hanno confessato Cristo fino alla morte. Per noi la memoria è davvero fondamentale, ci sono molti libri che ricordano cosa la cristianità ha perso durante gli anni di comunismo”.
Un memoria da ricordare, secondo l’arcivescovo Robu, perché “le nuove generazioni si sono allontanate dalla verità dell’ecumenismo del sangue”, un pensiero che invece “era molto presente nelle generazioni passate”. Sottolinea l’arcivescovo: “Davvero
le nuove generazioni non hanno cura di questa verità del martirio del sangue, perché è vero, le Chiese (non solo la Chiesa cattolica, ma anche le Chiese ortodosse, le Chiese protestanti) hanno sofferto durante il comunismo. È una verità, è un dato che è rimasto nella vita di ogni Chiesa cattolica, ortodossa e Chiese protestanti: c’è stato un martirio del sangue”.