La lotta è contro uno Stato la cui “proclamata neutralità non sembra in grado di evitare la tendenza a considerare la fede professata e l’appartenenza religiosa un ostacolo per l’ammissione alla piena cittadinanza culturale e politica dei singoli”.
Si tratta di un “totalitarismo morbido”, che apre “al nichilismo etico nella sfera pubblica”, e che nasce proprio da una “neutralità giuridica” che dice di volersi basare solo su “regole procedurali di giustizia”, ma mete da parte “ogni giustificazione etica ed ogni ispirazione religiosa”.
Nasce così – denuncia la Commissione Teologica Internazionale – “una ideologia della neutralità” che “impone l’emarginazione, se non l’esclusione, dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica”.
In questo modo, la sfera pubblica è neutrale solo in apparenza e la libertà civile “obiettivamente discriminante”. A questa ambivalenza, si aggiunge la conseguenza che la cultura civile deve definire “il proprio umanesimo attraverso la rimozione della componente religiosa dell’umano”, costretta così a rimuovere anche “parti decisive della propria storia”.
Si tratta di un sistema debole, nel quale molti trovano “giustificato” l’approdo da un “fanatismo disperato”, che sia ateistico e teocratico, che porta anche a “forme violente e totalitarie d’ideologia politica e di militanza religiosa, che sembravano ormai consegnate al giudizio della ragione e della storia”.
Si tratta di un ritorno alla religione? L’espressione – notano i teologi del Papa – è ambigua, perché questo ritorno “presenta anche aspetti di regressione nei confronti dei valori personali e della convivenza democratica che stanno alla base della concezione dell’ordine politico e sociale”, e in molti casi il ritorno alla religione è in realtà distaccato dalla “tradizione autentica e dallo sviluppo culturale delle grandi religioni storiche”.
La Commissione Teologica Internazionale nota che è necessario che la cultura civile superi “il pregiudizio di una visione puramente emozionale o ideologica della religione”, mentre la religione “deve essere incessantemente stimolata ad elaborare un in un linguaggio umanisticamente comprensibile la visione della realtà e della convivenza che le respirano”.
La qualità della vita religiosa – si legge ancora nel documento – “passa attraverso il ripudio di ogni tentativo di strumentalizzare il potere politico”, sia pure “praticato in vista di un proselitismo della fede”, mentre “l’evangelizzazione si rivolge oggi alla positiva valorizzazione di un contesto di libertà religiosa e civile della coscienza”.
Nessun proselitismo, dunque, ma uno spazio nuovo da osservare, che è anche mutato con la stagione delle “migrazioni di popoli”, spesso a causa di povertà, che “stanno creando, all’interno dell’Occidente, società strutturalmente interreligiose, interculturali, interetniche”.
È necessario dunque “inventare un nuovo futuro”, con la costruzione di modelli del rapporto tra libertà religiosa e democrazia civile”.
C’è speranza, perché il cristianesimo fiorì proprio in un contesto inter-etnico e inter-religioso, ma è comunque una sfida, in uno Stato che ha una “assoluta indifferenza etico-religiosa”.
La Chiesa ha anche dei passi da fare. Deve superare, ad esempio, “l’apparente contraddizione fra rivendicazione della libertà ecclesiale e condanna della libertà religiosa”. È un nuovo modello di esercitare la libertas ecclesiae, di fronte a leggi secolari sempre più ostili, che addirittura puntano ad attaccare il segreto della confessione, come avvenuto in Australia e più recentemente in Cile.
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Nel documento, si spiega anche che la Chiesa non era ostile alla libertà religiosa, ma inizialmente reagiva ad una impostazione aggressiva del laicismo di Stato, che la attaccava nel momento in cui era religione di Stato. Ma poi, c’è stata “una migliore auto-comprensione dell’autorità della Chiesa nel contesto del potere politico” e allo stesso modo “un progressivo ampliamento delle ragioni della libertà della Chiesa dentro la cornice delle libertà fondamentali dell’uomo”.
Come difendere oggi la libertà religiosa? Partendo dal presupposto che la persona umana è integra, e dunque “non si può separare la sua libertà interiore dalla sua manifestazione pubblica”.
La difesa dei diritti inalienabili di ciascun individuo è anche – nota il documento – una “reazione contro l’esperienza traumatizzante dei totalitarismi” del XX secolo, ma la valorizzazione della singolarità umana ha avuto anche contraddizioni, perché alcune libertà vanno a toccare altre, e dunque è importante “l’impegno a sostenere una concezione relazionale dell’essere personale, sviluppando una riflessione antropologica in grado di correggere persuasivamente le visioni individualistiche del soggetto”.
E si difende qui il diritto all’obiezione di coscienza, che è “in profonda sintonia con la convinzione cristiana che l’appartenenza religiosa si definisce essenzialmente da un atteggiamento – la fede – che per natura sua non può non essere libero”.
La Commissione Teologica Internazionale nota anche che “il riconoscimento della pari dignità delle persone non si risolve nella semplice formulazione giuridica degli uguali diritti”, perché “lo Stato che si limitasse a registrare questi desideri soggettivi, trasformandoli in vincolo del diritto senza alcun riconoscimento del suo rapporto con il bene comune, rischierebbe di indebolire il sostegno istituzionale delle ragioni etiche che proteggono il legame sociale”.
C’è tutto un mondo che si lega a questa deriva procedurale dello Stato. Ad esempio – denunciano i teologi – “il ruolo umanizzante che è proprio della famiglia”, in una emarginazione che tra l’altro è un problema per l’evangelizzazione, perché “coloro che, ormai ignoranti del cristianesimo, lo confondono con una ideologia, un moralismo, una disciplina, oppure con una sovrastruttura arcaica, non potranno essere riavvicinati che tramite un incontro familiare umano”.