I fatti del 9 aprile, sottolinea, non rappresentarono la prima volta di una manifestazione pubblica di dissidenza al regime sovietica, eppure “hanno lasciato un profondo segno sul destino della Georgia di oggi e in generale su una più vasta area dello spazio post-sovietico”.
Si è trattato di eventi – prosegue Gegeshidze – che hanno avuto una influenza “nel formare l’identità georgiana”, dando fiato al nazionalismo georgiano che era rifiorito negli Anni Ottanta nonostante la repressione sovietica, fino ad “acquisire un significato politico con la nozione di libertà nazionale”:
Era “un risveglio nazionale”, che era iniziato “specialmente tra i giovani e parte dell’intellighentsia” e che progredì rapidamente.
Anche perché la repressione fu oggetto del lavoro di una commissione, la commissione Sobchak, che riportò dei fatti in nome della glasnost che era la linea politica dell’allora segretario generale del Partito Comunista Sovietico Michail Gorbachev.
Si creò anche una reazione nell’esercito, perché, dopo che la commissione rivelò cosa era successo, nessun militare sovietico accettò di eseguire ordini senza che fossero chiare le responsabilità della catena di comando: è la cosidetta sindrome di Tbilisi.
Tra i giovani scesi in piazza, c’era anche Giorghi Tzhomelidze, che oggi è segretario del vescovo Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, e allora era un giovane studente dell’ultimo anno delle scuole superiori.
Tzhomelidze sottolinea “l’entusiasmo che ha caratterizzato l’inizio della lotta per la conquista della libertà”. Gli animi si scaldarono, racconta, con la decisione dell’esercito sovietico di base in Azerbaijan di usare come poligono di tiro il monastero di David Gareji, e fu lì che “gli studenti dell’università statale presero spunto per cominciare le proteste”.
Tzhomelidze ricorda che le manifestazioni avevano come slogan “libertà e indipendenza” e “tutto il Paese s sentì subito unito da quell’unico scopo che si chiamava libertà”.
Fino al 9 aprile, il giorno “che ha segnato la storia di questo Paese e anche di altri, dato che come una reazione a catena sono iniziate poi anche in altri Paesi le dimostrazioni per chiedere indipendenza e libertà”.
Il 9 aprile oggi è ricordato come Giorno di Unità Nazionale, perché il 31 marzo 1991 i georgiani votarono in un referendum per l'indipendenza dall'Unione Sovietica, e fu proprio il 9 aprile 1991, nel secondo anniversario della tragedia, il Consiglio Supremo della Repubblica di Georgia proclamò la sovranità dello Stato e l'indipendenza dall'Unione Sovietica a seguito di quel referendum.
Giorno doppiamente significativo, dunque. Ed è un giorno che Tzhomelidze porta alle memoria “con gioia e dolore”. Un giorno preparato da quando, “qualche giorno prima del 9 aprile, l’esercito sovietico aveva voluto dimostrare la sua forza mostrando al centro della città i carri armati e facendo sfrecciare a bassa quota nel cielo, sopra i manifestanti, gli aerei militari”.
Tzhomelidze però ha bene in mente “la mancanza di paura nei volti delle persone”, e viale Rustaveli divenne “il centro del campo di battaglia”, e la notte “tutte le vie che davano al Viale Rustaveli venivano chiuse dai carri armati mentre i soldati russi, con manganelli e piccoli badili, incominciarono a far sfollare la gente picchiando con ferocia. Solo in quella notte, verso l’alba del 9 aprile, morirono 21 persone e rimasero sulla strada numerosi feriti. Tra i morti c’erano due mie compagne di scuola di 16 anni; Nino e Natia. Due care ragazze martiri per la libertà”.
Iscriviti alla nostra newsletter quotidiana
Ricevi ogni giorno le notizie sulla Chiesa nel mondo via email.
Nell'ambito di questo servizio gratuito, potrete ricevere occasionalmente delle nostre offerte da parte di EWTN News ed EWTN. Non commercializzeremo ne affitteremo le vostre informazioni a terzi e potrete disiscrivervi in qualsiasi momento.
Ma nonostante la trageda, il giorno dopo “ripresero le dimostrazioni pacifiche sotto forma di solidarietà e di preghiera verso i morti”, e viale Rustaveli si “rianimò e si riempì di fiori portati dalla gente in segno di affetto e di lutto”, mentre “molta gente s radunava attorno alle due chiese ortodosse ancora funzionanti (le altre, durante il periodo sovietico, erano state chiuse) per pregare i defunti”.
Ma anche la chiesa dei Santi Pietro e Paolo – ricorda Tzhomelidze – “si era riempita, ed era diventata centro di preghiera non solo per i cattolici”.
Sono tutte queste memorie che si intrecciano, nel trentesimo anniversario del massacro di Tbilisi. Un momento in cui tutti si sentirono uniti, cattolici e ortodossi, mettendo in pratica quell’ecumenismo del sangue di cui parla sempre Papa Francesco.