Città del Vaticano , venerdì, 1. marzo, 2019 9:00 (ACI Stampa).
“Fare la pace” non è solo arrivare ad un cessate il fuoco, né riguarda solo i problemi dell’uso della forza, ma chiede piuttosto la necessità di prevenire le cause che possono scatenare, divisioni, conflitti e guerre. Lo dice l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, in un intervento al seminario di studio “Formare gli operatori di pace”.
Il seminario è organizzato dalla Cattedra “Gaudium et Spes” del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della famiglia, ed entra nel solco dell’ultima iniziativa della “Università del Papa”, ovvero l’istituzione di un Corso di Laurea in Scienze della Pace. Nel suo intervento, l’arcivescovo Gallagher nota che “la pace si limita a garantire un precario cessate il fuoco o a proteggere la popolazione civile (ed è già un grande risultato), dimenticando che per fare la pace è necessario un apporto complesso e dinamico”, dato che la cultura di pace “non si può limitare solo ai problemi” riguardanti l’uso della forza o il disarmo e la lotta al terrorismo cui gli Stati sono tenuti, ma chiede piuttosto “lo sforzo di prevenire le cause che possono scatenare divisioni, conflitti e guerre”.
Il “ministro degli Esteri” vaticano sottolinea che la vera pace va costruita su “principi etici, condotte morali coerenti e atteggiamenti capaci di riconoscere l’uomo come origine e fine di ogni azione”, ma questi principi vengono espressi solo dopo conflitti dolorosi, mentre “dovrebbero essere fondamenti ben saldi e strutturati della vita dei popoli e tra gli Stati”.
Anche gli strumenti internazionali dovrebbero essere “usati secondo la logica della pace”, e questo si vede – aggiunge l’arcivescovo Gallagher – nell’evoluzione del diritto internazionale che si registra nella attività delle Nazioni Unite, perché “la vigenza del modello ONU ha prodotto molo in termini di regolazione, applicazione e istituzionalizzazione del divieto di usare la forza per risolvere ogni contrasto tra gli Stati o per creare situazioni di fatto”.
Ma è lo stesso modello spesso violato, forse perché gli Stati accettano la normativa, ma non i popoli, i gruppi, le persone, e allora va regolamentato l’uso della forza, un “altro apporto che una cultura di pace può esprimere, magari influenzando l’azione delle istituzioni della Comunità internazionale, che pur essendo costruite su un tale obiettivo non riescono ad imprimerlo nella condotta degli Stati”.