Papa Francesco centra l’omelia sulla stanchezza e la speranza. Il brano evangelico è quello della samaritana al pozzo, la donna più volte sposata cui Gesù, affaticato per il viaggio, chiede di dargli da bare. Due, per Papa Francesco, le frasi chiave del brano evangelico: “Affaticato per il viaggio” e “Dammi da bere”. Un messaggio inviato soprattutto a sacerdoti e comunità religiose.
Gesù è stanco, perché tutta la dedizione che Gesù metteva nel portare la buona notizia ai poveri prendeva “la vita e l’energia”. Ma questo è difficile da pensare per noi che siamo “ossessionati dall’efficienza”. Facile, dice il Papa, è “entrare in comunione con l’attività del Signore”, ma non comprenderne le fatiche. Eppure, nella fatica del Signore “trovano posto tante stanchezze dei nostri popoli e della nostra gente, delle nostre comunità e di tutti quelli che sono affaticati e oppressi”. Si può essere stanchi per le “lunghe ore di lavoro”, o per le “tossiche condizioni di lavoro o affettive”, per la “semplice o quotidiana dedizione” o per il peso “di chi non trova il gusto, il riconoscimento o il sostegno per far fronte alle necessità di ogni giorno”, per le situazioni complicate o per una certa tensione.
Papa Francesco guarda soprattutto alle comunità di consacrati, una “gamma di pesi da sopportare” difficile da elencare in completezza, ma che mostra la necessità di avere “un pozzo da cui ripartire”.
Papa Francesco nota che nelle comunità sembra essersi installata, invece, una stanchezza di tipo diverso, una “tentazione che potremmo chiamare la stanchezza della speranza”, che non è “la particolare fatica del cuore” di chi, nonostante “a pezzi per il lavoro”, riesce comunque “a mostrare un sorriso sereno e grato a fine giornata”, ma alla stanchezza di fronte al futuro, “quando la realtà “prende a schiaffi” e mette in dubbio le forze, le risorse e la praticabilità della missione in questo mondo che tanto cambia e mette in discussione”.
Si tratta, dice Papa Francesco, di una “stanchezza paralizzante”, che nasce dall’incapacità di sapere come reagire ai cambiamenti della società, che sembrano mettere in discussione non solo “le nostre modalità di espressione e di impegno”, ma mettere in dubbio persino la “praticabilità della vita religiosa oggi”.
Una stanchezza della speranza che “nasce dal constatare una Chiesa ferita dal suo peccato e che molte volte non ha saputo ascoltare tante grida nelle quali si celava il grido del Maestro: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46)”.
È così – dice Papa Francesco – che si vive una “speranza incerta”, e, mentre tutto sembra procedere normalmente, “la fede si consuma e si rovina”, fino ad arrivare a dare cittadinanza ad una “delle peggiori eresie possibili nella nostra epoca”, quella di “pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno nulla da dire né da dare in questo nuovo mondo in gestazione”.
Succede così che “ciò che un giorno è nato per essere sale e luce del mondo, finisce per offrire la propria versione peggiore”.
È qui che diventa necessario chiedere da bere, sapendo che la sete non può essere alleviata da qualunque novità, e che “nemmeno la conoscenza religiosa, la giustificazione di determinate scelte e tradizioni passate e presenti” ci permettono di essere “fecondi e appassionati adoratori in spirito e verità”.
Nel dire “dammi da bere”, dice Papa Francesco, “apriamo la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al pozzo fondante del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con misericordia, ci ha chiesto di seguirlo” e “recuperiamo la memoria di quel momento in cui i suoi occhi hanno incrociato i nostri, il momento in cui ci ha fatto sentire che ci amava, e non solo in modo personale ma anche come comunità”.
Chiedendo a Gesù da bere, ritorniamo – prosegue Papa Francesco – “sui nostri passi e, nella fedeltà creativa, ascoltare come lo Spirito non ha creato un’opera particolare, un piano pastorale o una struttura da organizzare ma che, per mezzo di tanti ‘santi della porta accanto’ ha dato vita e ossigeno a un determinato contesto storico che sembrava soffocare e schiacciare ogni speranza e dignità”.
Significa, in sintesi, “avere il coraggio di lasciarsi purificare e di recuperare la parte più autentica dei nostri carismi originari – che non si limitano solo alla vita religiosa, ma a tutta la Chiesa – e vedere in quali modalità si possano esprimere oggi”. E si tratta di “non solo guardare con gratitudine il passato”, ma anche andare in cerca delle radici, di “riconoscersi bisognosi che lo Spirito ci trasformi in uomini e donne memori di un passaggio, il passaggio salvifico di Dio”, perché così “la speranza stanca sarà guarita e godrà di quella particolare fatica del cuore quando non temerà di ritornare al luogo del primo amore e riuscirà ad incontrare, nelle periferie e nelle sfide che oggi ci si presentano, lo stesso canto, lo stesso sguardo che suscitò il canto e lo sguardo dei nostri padri”.
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Papa Francesco sottolinea che solo così “eviteremo il rischio di partire da noi stessi e abbandoneremo la stancante autocommiserazione per incontrare gli occhi con cui Cristo oggi continua a cercarci, a chiamarci e a invitarci alla missione”.
L’esempio è dato dalla Cattedrale, che “riapre le porte dopo vari anni”, al termine di quella che non è “una formale ricostruzione”, ma piuttosto una ricerca di “ritrovare la bellezza degli anni aprendosi a ospitare tutta la novità che il presente le poteva dare”, per una Cattedrale che “non appartiene più solo al passato, ma è bellezza del presente. Oggi è nuovamente grembo che stimola a rinnovare e alimentare la speranza, a scoprire come la bellezza di ieri diventi base per costruire la bellezza di domani”. Ed è così, dice Papa Francesco, che agisce il Signore.
Infine, il Papa esorta: “Fratelli, non lasciamoci rubare la bellezza che abbiamo ereditato dai nostri padri! Essa sia la radice viva e feconda che ci aiuti a continuare a rendere bella e profetica la storia della salvezza in queste terre”.