Il motivo del richiamo non risiedeva nelle accuse di pedofilia, hanno spiegato in Vaticano, e la Chiesa dominicana ha descritto il richiamo a Roma di Wesolowski come un procedimento amministrativo.
Anche la Polonia, nazione di origine di Wesolowski, aveva cominciato indagini sul suo conto e si è scritto che questi aveva chiesto l’estradizione, non concessa, come è stato reso noto a gennaio 2014, perché – nelle parole del Procuratore Distrettuale di Varsavia – “mons. Wesolowski è un cittadino del Vaticano, e la legge vaticana non consente l'estradizione”. Una versione diversa aveva dato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, che aveva sottolineato che nessuna richiesta di estradizione era stata inoltrata, e la Santa Sede, la Polonia e la Repubblica Dominicana stavano cooperando.
Nel frattempo era iniziato il processo canonico, e il primo grado di giudizio, conclusosi a giugno 2014, ha portato alla dimissione di Wesolowski dallo Stato clericale. Wesolowski, come suo diritto, ha fatto appello entro i due mesi. E si attendeva il giudizio di secondo grado.
Il nunzio però ha continuato a detenere materiale pornografico, e con questa accusa è stato arrestato il 23 settembre 2014 dagli agenti della Gendarmeria vaticana. Messo agli arresti domiciliari per problemi di salute, le indagini hanno portato alla decisione, resa nota il 15 giugno 2015, di rinviare l’ex nunzio a giudizio.
La decisione di celebrare il processo in Vaticano ha anche registrato l’insofferenza di alcuni commentatori. Un editoriale del Boston Globe del 1 settembre 2014 a firma di James Carrol ha sottolineato che “con una dimostrazione di forza, gli officiali della Chiesa hanno laicizzato Wesolowski e promesso di processarlo secondo le leggi del Vaticano. In effetti, invece, gli officiali della Chiesa hanno ancora una volta protetto un prede predatore dalla giurisdizione civile.”
Carrol sottolineava anche che l’unico modo di superare questa impasse era togliere alla Santa Sede la dignità di Stato, in questo modo mostrando quale sia in fondo la volontà di molte delle campagne anti-pedofilia contro la Chiesa: quella di minarne l’autorità morale, sperando di togliere un po’ di quella sovranità che permette alla Santa Sede di essere una voce morale importante e forte.
In fondo, Wesolowski può comparire davanti al tribunale vaticano perché era cittadino di quello stato e officiale nell’esercizio delle sue funzioni nel momento in cui ha commesso il reato. Nonostante ci sia un nuovo codice penale vaticano che ha inasprito le pene per pedofilia, a Wesolowski saranno eventualmente comminate delle pene secondo il vecchio codice: le norme penali non sono mai retroattive. Rischia fino a sette anni di reclusione, dieci con eventuali aggravanti.
Dall’altro canto, c’è da registrare lo sforzo di Papa Francesco di mostrare una “mano di ferro” contro la pedofilia dei sacerdoti, prima con lo stabilimento della Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori, poi con la proposta di istituire un tribunale apposito dentro la Congregazione della Dottrina della Fede per giudicare i vescovi che si rendono colpevoli di “abuso d’ufficio” sui casi di abuso.
Al di là dell’impegno, alcuni osservatori interni hanno notato che il modo in cui queste scelte sono state comunicate porta con sé il rischio di confermare e rinforzare – senza tra l’altro fondamento – gli argomenti errati che sono stati presentati a volte in procedimenti legali contro sacerdoti come quelle che sono state definite le “responsabilità istituzionali” e la responsabilità “della Chiesa, e quelle riguardo la responsabilità legale di vescovi e superiori per errori dei sacerdoti, anche in assenza di un errore concreto e di una negligenza da parte dei vescovi e dei superiori. E si crea anche un’altra impressione, cioè che la legge canonica non ha gli strumenti per sanzionare coloro che sbagliano, cosa tra l’altro falsa.
Non solo. Ma l’impegno della Santa Sede in tutti questi anni si è rivelato decisivo. Già nel 1988 Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, aveva cominciato a curare il problema di come semplificare i processi di laicizzazione dei preti che si macchiavano di abuso, come dimostra un suo scritto.
Nel 2001, vengono promulgati in stretta sequenza il Motu Proprio di Giovanni Paolo II «Sacramentorum sanctitatis tutela», in cui si afferma che il trattamento dei delitti più gravi sarebbe stato affidato alla Congregazione per la Dottrina della Fede, e l'istruzione «De delictis gravioribus» (firmata dall'allora prefetto Ratzinger) di appena un mese dopo, che dava attuazione al motu proprio e specificava quali fossero i reati più gravi che andavano sotto la diretta competenza della Congregazione per la Dottrina per la Fede.
Tra questi reati, sono comprese “la sollecitazione, nell'atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso”, e “il delitto contro la morale, cioè: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età”.
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È da notare in particolare l'istruzione di Ratzinger, che stabilisce le procedure da seguire: prima l'ordinario o il gerarca svolgono un'indagine preliminare; una volta accertato il fatto, lo segnalano alla Dottrina della Fede, che, a meno di casi particolari, rimanda il tutto al tribunale diocesano per ulteriori accertamenti. L'unico appello al giudizio del tribunale diocesano si può fare al supremo Tribunale della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Nel luglio 2010, sotto Benedetto XVI, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha presentato delle modifiche al Codice di Diritto canonico che dettagliavano ancora meglio le procedure. A seguito di questa riforma, tra il 2011 e il 2012 oltre 400 sacerdoti sono stati ridotti allo Stato laicale, secondo dati forniti dalla Santa Sede alla Convenzione per il Trattato sulla Protezione dei Fanciulli.
In attesa che Wesolowski si riprenda, resta da vedere ora come andrà avanti il primo processo penale in Vaticano per reati di questo tipo, e allo stesso tempo come proseguiranno gli sforzi della Santa Sede nella risposta agli abusi. L’obiettivo è quello di fare in modo che tutto sia trattato con giustizia e fermezza, ma senza accuse sommarie. D’altronde, non a caso il pm vaticano si chiama “promotore di Giustizia.”