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Un servizio di EWTN News

Papa Francesco, ecco la sua "diplomazia delle periferie"

Papa Francesco con il Patriarca Bartolomeo e il Patriarca Girolamo a Lesbos, marzo 2016

Andare lì dove c’è bisogno di Dio”. Sembra essere questo il criterio che ha guidato Papa Francesco nella scelta dei viaggi internazionali. Una scelta dettata anche dal suo profondo essere gesuita, un religioso per natura spinto ad andare oltre confine, a dialogare con l’incerto più che a rafforzare il certo. È nel labile confine tra missione e apostolato che si può comprendere la cifra internazionale di Papa Francesco. Una cifra che si è declinata in due mondi diversi: la diplomazia dei viaggi e dei gesti e la diplomazia “tout court”, guidata in Vaticano da un diplomatico cresciuto alla scuola di Casaroli e Sodano come il Cardinale Pietro Parolin. Ma anche, la diplomazia delle mediazioni, provata in Venezuela, Colombia, Nicaragua, raggiunta con successo nell’aiutare Stati Uniti e Cuba a ripristinare le loro relazioni diplomatiche, e rimasta sospesa nell’ultimo grande tentativo di Papa Francesco, il lavoro per la pace in Ucraina che lo ha visto presentarsi in maniera non protocollare all’ambasciata della Federazione Russa presso la Santa Sede, e poi inviare tre cardinali, incluso un inviato speciale, il Cardinale Matteo Zuppi, per cercare almeno di comprendere le vie di pace.

Sono le tre direttive diplomatiche del lavoro di Papa Francesco nel corso di questi dieci anni.

Cominciamo da i viaggi internazionali di Papa Francesco. Ci sono stati viaggi quasi obbligati, nati da impegni imprescindibili: la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio nel 2013l’Incontro Mondiale delle Famiglie di Philadelphia nel 2015, la Giornata Mondiale della Gioventù di Cracovia nel 2016, e l’Incontro Mondiale delle Famiglie di Dublino nel 2018Ma, in generale, i viaggi scelti da Papa Francesco raccontano molto dell’indirizzo che ha voluto dare al Pontificato.

Primo criterio: i viaggi sono ecumenici. Non a caso, tra i primissimi viaggi c’è quello a Gerusalemme, a maggio 2014, per celebrare il 50esimo anniversario dell’abbraccio di Paolo VI e Atenagora. Lì, c’è il Patriarca Bartolomeo, e suggellare un dialogo costante nato con la presenza di Bartolomeo alla Messa di inizio pontificato, il primo Patriarca di Costantinopoli a farlo. Bartolomeo sarà poi l’ospite di Papa Francesco durante il viaggio in Turchia nel novembre 2014, e sarà con Papa Francesco anche a Lesbo, nel marzo 2016, quando il Papa utilizzò poi il volo papale come un corridoio umanitario

Ha avuto un profilo ecumenico anche il viaggio di Papa Francesco in Egitto, nel marzo 2017. Lì il Papa è stato alla cattedrale di San Marco, vittima di un attentato l’anno prima, accompagnato da Papa Tawadros, capo della Chiesa copta, e dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo.

Come è stato forte il tema ecumenico nel viaggio in Lituania, Lettonia ed Estonia che Papa Francesco ha compiuto dal 22 al 25 settembre 2018, dove tra il dipinto originale della Divina Misericordia e il lavoro costante di dialogo ecumenico tra cattolici e protestanti Papa Francesco ha potuto scoprire la fede di quella che fu proclamata “Terra Mariana”. Così come fu ecumenico il viaggio in Svezia del 31 ottobre – 1 novembre 2016, quando Papa Francesco andò a commemorare i 500 anni della Riforma Protestante, ma anche a creare nuove forme di dialogo e comunione.

Ed è stato un pellegrinaggio ecumenico quello che ha portato Papa Francesco a Ginevra il 21 giugno 2018, mentre l’ecumenismo è stato chiave della pace nell’incontro che Papa Francesco ha promosso a Bari il 7 luglio 2018.

Infine, sono stati viaggi ecumenici, in Paesi a maggioranza ortodossa, quelli che hanno visto Papa Francesco toccare Bulgaria e Macedonia del Nord dal 5 al 7 maggio 2019 e poi la Romania dal 31 maggio al 2 giugno 2019. Ed è stato ecumenico il viaggio in Cipro e Grecia dal 2 al 6 dicembre 2021, come quello in Kazakhstan del 13 – 15 settembre 2022, in realtà dedicato maggiormente al dialogo interreligioso.

Ma sono viaggi ecumenici perché sviluppano anche un tema caro a Papa Francesco: quello dell’ecumenismo del sangue, l’unione tra confessioni cristiane per il solo fatto di aver versato il sangue del Cristo. È il tema che ricorre durante il viaggio in Egittodurante il viaggio in Armenia, nel giugno 2016, ma che è ben presente durante il viaggio in Africa del novembre 2015, e in particolare nella tappa in Uganda, lì dove cristiani ed anglicani sono stati martirizzati insieme. È rimasta incompiuta l’idea di un viaggio in Sud Sudan, anche questo da fare in maniera ecumenica, stavolta in compagnia dell’arcivescovo Justin Welby, primate anglicano.

Quelli di Papa Francesco sono viaggi ecumenici anche perché creano le occasioni di un incontro. Come la tappa a Cuba, a marzo 2016, nella rotta verso il Messico. Una tappa fatta e voluta solo per poter incontrare il Patriarca Kirill, capo del Patriarcato Ortodosso di Mosca. È il primo incontra tra il Papa e un Patriarca ortodosso nella storia, dopo che per anni si era provato, senza successo, prima sotto Giovanni Paolo II e poi sotto Benedetto XVI. Ma il dialogo è un dialogo “pastorale” come “pastorale” è il comunicato congiunto finale, ci tiene subito a spiegare Papa FrancescoSegno che per lui l’incontro viene prima della teologia e del dialogo sui principi. Prima il fare, poi il resto, secondo l’adagio che “la realtà è più grande della teoria” contenuto nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, che più volte il Papa ha definito documento programmatico.

Secondo criterio: andare alle periferie. Papa Francesco ha viaggiato in Europa, ma toccando di rado l’Unione Europea. Le eccezioni sono state l’Ungheria, dove è andato per la prima volta nella sola Budapest per il Congresso Eucaristico Internazionale ed è tornato dal 28 al 30 aprile 2023, e la Slovacchia, visitata per tre giorni nel 2022.

 È stato in Armenia, Georgia e Azerbaijan, lì dove continente europeo e continente asiatico si toccano. È stato in Albania a settembre 2014, lì dove l’ateismo di Stato aveva cancellato ogni traccia della religione, e lo ha accolto una strada costellata dalle immagini dei martiri. È stato in Corea del Sud ad Agosto 2014, nella nazione asiatica che fu evangelizzata da laici. È stato nel gennaio 2015 nello Sri Lanka del dialogo sempre difficile, nelle Filippine dalla fede fortissima ( dove ha celebrato una Messa cui hanno partecipato almeno un milione di persone) nelle pieghe incerte di una vita difficile e di una politica violenta, nel Myanmar dove si vive il dramma nascosto dei cristiani perseguitati e non solo quello dei Rohingya, nel Bangladesh ferito dagli attacchi di Dhaka. È stato a giugno 2015 a Sarajevola città ferita dalla guerra, a promuovere ancora una volta la sua cultura dell’incontro. E poi, nel suo Sudamerica, ha viaggiato tra Ecuador, Bolivia e Paraguay, ha fatto due tappe a Cuba ed ha svolto un viaggio in Colombia per confermare nella speranza nel settembre 2017  e un viaggio in Cile e Perù nel gennaio 2018. Ma non va dimenticato il viaggio, agognato, in Sud Sudan, anche quello un viaggio ecumenico, svolto insieme al moderatore della Chiesa di Scozia e all’arcivescovo di Canterbury. In Sud Sudan ci era arrivato dalla Repubblica Democratica del Congo, lì dove c’è stato l’incontro forse più intenso del pontificato, quello con le vittime della guerra civile.

Particolarissimo il viaggio in Thailandia e Giappone del novembre 2019: da una parte, una nazione dove i cattolici sono minoranza, ma dove comunque il dialogo è florido è dunque c’è bisogno di dare forza alla fede; dall’altra, un luogo da dove far ripartire il no alle armi nucleari, fortissimo, ma anche da dove far ripartire la fede, perché i cattolici giapponesi sono stati anche i cattolici del periodo del silenzio.

Ci sono, poi, due posti che sono stati un crocevia importante per Papa Francesco: Bari e Cuba.

A Bari, Papa Francesco è tornato il 23 febbraio 2020, per parlare ai vescovi del Mediterraneo e lanciare un messaggio affinché il mare nostrum non sia più un cimitero, ma un luogo di pace.

Cuba paradossalmente è diventata il luogo di due dei successi più importanti del pontificato: l’incontro con Kirill, ma anche il luogo da cui arrivare negli Stati Uniti, a simboleggiare quella riapertura delle relazioni diplomatiche di cui la Santa Sede si è fatta facilitatore. E lo ha potuto fare in nome dei 75 anni di relazioni diplomatiche ininterrotte con la isla e in nome del grande lavoro fatto nei tempi passati. Niente nella Chiesa accade all’improvviso, tutto è frutto di un lungo lavoro.

Così, dai viaggi si arriva a capire il lavoro diplomatico. Cuba è il segno di un nuovo impulso alle mediazioni pontificie, che hanno operato dinché è stato possibile in Venezuela su diretta richiesta delle parti in causa, ma anche nei difficili rapporti con la Cina. A Pechino si è guardato con insistenza, facendo scelte che ad alcuni hanno ricordato la Ostpolitikcome l’apertura, sulle nomine dei vescovi che nessuno in Vaticano ha mai visto come un buon accordo possibile, ma di certo il migliore possibile per far ripartire la Chiesa, e che si è concretizzata con un accordo provvisorio ancora tutto da decifrare, è stato rinnovato, ha avuto dei problemi strutturali, ma che, è stato chiarito, vuole mantenere la libertà di coscienza dei vescovi

Lo sguardo diplomatico di Francesco si è posato su Pechino e su Mosca, mete mai toccate da un Papa. Ma si è posato anche sull’Ucraina, con Kiev sempre come obiettivo possibile di un viaggio (ma non fino a quando ci sarà il dibattito tra le Chiese ortodosse), sull’Iraq dove a Natale 2018 è stato anche il Cardinale Pietro Parolin, e sulla martoriata Siriacui il Papa ha regalato un nunzio cardinale.

La Siria è l’esempio della “diplomazia della preghiera” di Papa Francesco, perché fu per la situazione in Siria che Papa Francesco, nel settembre 2013, proclamò una giornata di digiuno e di preghiera per la Siria e per il Medio Oriente. E un’altra preghiera, quella per la pace nei Giardini Vaticani del giugno 2014, è stata usata come grimaldello diplomatico per cercare di creare un punto di incontro.

Nella visione di Papa Francesco, le religioni devono incontrarsi per creare bene comune, il dialogo interreligioso è parte della diplomazia. E si leggono in questa chiave le restaurate relazioni con l’Università al Azhar del Cairo, tra i maggiori centri dell’Islam sunnita. Durante il viaggio in Egittoil Papa ha partecipato alla Conferenza Internazionale della Pace organizzata dalla stessa istituzione, e ha ribadito ancora una volta che non può esserci violenza in nome di Dio. Da qui, anche la decisione di recarsi negli Emirati Arabi Uniti, dal 3 al 5 febbraio 2019, così come quella di andare in Maroccoil 30 e 31 marzo 2019. Ad Abu Dhabi, poi, ha firmato con il Grande Imam di Al Azhar Ahmed al Tayyb una dichiarazione sulla Fratellanza Umana che è diventata linea guida diplomatica, tanto che il Papa ne ha regalato una copia a tutti i capi di Stato che gli hanno fatto visita. 

Una linea guida diplomatica, quella della Dichiarazione sulla Fraternità, che è stata ben presente nel viaggio di Papa Francesco in Iraq dal 5 all’8 marzo 2021, che ha avuto come momento culminante l’incontro con il Grande Ayatollah al Sistani e quello con le altre religioni alla Piana di Ur (ma senza rappresentanti ebrei, cosa che è sembrata forse una eccessiva prudenza diplomatica). Primo effetto del viaggio, la proclamazione di una Giornata Nazionale della Coesistenza. Ed è stata una dichiarazione presente nel viaggio di Papa Francesco in Bahrein del 3-6 novembre 2022, viaggio durante il quale il Papa ha anche inaugurato la cattedrale di Nostra Signora di Arabia.

Va letto in questa chiave anche il progetto – poi abortito – di una visita alla moschea di Roma, così come il dialogo con i fratelli ebrei propiziato dal suo amico di sempre, il rabbino Abraham Skorka, che ha visto diverse personalità del mondo giudaico presentarsi davanti a Papa Francesco, e che ha avuto il culmine nella visita di Papa Francesco presso la sinagoga di Roma il 17 gennaio 2016.

Un tema, quello della fraternità, che è sfociato in una enciclica, la Fratelli Tutti, sviluppata durante la pandemia e ora diventata parte degli strumenti diplomatici della Santa Sede presentata il 15 aprile 2021 ad un evento di Alto Livello presso le Nazioni Unite.

Insomma, si deve dimostrare prima di tutto di essere amici. Ma poi, dal punto di vista diplomatico, le cose vanno avanti in maniera precisa. La linea l’ha dettata il Cardinale Parolin, nel settembre 2014, quando da Segretario di Stato passò una settimana al Palazzo di Vetro tra discorsi e conferenze che sono il sale della settimana di inaugurazione della sessione annuale ONU. E la parola d’ordine era “dovere di proteggere”.

(La storia continua sotto)

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Un dovere di proteggere che la Santa Sede, in questi anni, ha applicato all’ambiente (basti pensare all’enciclica Laudato Si e all’impegno per l’accordo con il clima), alle minoranze perseguitate (grazie all’impegno diplomatico della Santa Sede si è cominciato a parlare per la prima volta nelle istituzioni europee di persecuzione dei cristiani), alle persone vittime di traffico di esseri umani (forse il tema principale dell’attività diplomatica di Papa Francesco), ai migranti (Papa Francesco ha destinato un intero ufficio della Curia romana, sotto le sue dirette dipendenze, all’emergenza migranti). Al tema dei migranti è stato poi dedicato tutto l’impegno diplomatico della Santa Sede nel 2018, in vista dell’accordo globale sulle migrazioni che è stato discusso a Marrakech il 10 e 11 dicembre 2018.

Papa Francesco poi è sceso personalmente in campo. “Terra, tetto e lavoro” sono le tre parole d’ordine dell’impegno sociale, ripetute sempre nei suoi incontri con i movimenti popolariil pueblo che ama moltissimo secondo un populismo tutto latino-americano. Ma la sua diplomazia, più che una teologia politica un vero e proprio programma politico, si è delineata nei discorsi alle Nazioni Unite di New York e Nairobi, nonché in quelli al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa. In questi quattro discorsi, il Papa ha ribadito la sua idea di dottrina sociale come un unicum, con una difesa della dignità umana che tocca i temi della vita (i no all’aborto, all’eutanasia, al gender sono sempre stati presenti nei discorsi), ma che chiede anche un approccio più umanitario alle questioni. Meno cultura, più pratica.

E una menzione speciale va fatta alla politica europea di Francesco, anche questa tutta delineata su questioni pratiche. Nell’Europa delle cattedrali e delle radici cristianePapa Francesco va oltre il tema delle radici e lascia da parte le nazioni europee – nessun viaggio in Francia, nemmeno per i mille anni della Cattedrale di Strasburgo; a Fatima solo per visitare il santuario; in Polonia, solo in occasione della GMG, che ovviamente è diventato anche un viaggio nella memoria di San Giovanni Paolo II – per andare a parlare direttamente al cuore delle istituzioni. Ad un gruppo di intellettuali francesi, confesserà poi che l’Europa secondo lui è il luogo dove c’è maggiore spinta per unificare il mondo, dove c’è una uniformità culturale necessaria.

Sono queste le due velocità della diplomazia di Papa Francesco. Una diplomazia che usa anche i martiri come strumento di messaggio e di dialogo (emblematici i primi martiri del Laos, Paese tra i pochi che non ha relazioni diplomatiche con la Santa Sede), ma che punta soprattutto allo stare vicini. E allora, tra il riconoscimento dello Stato palestinesei discorsi all’UNESCO, gli equilibrismi diplomatici, si trova anche un altro Stato che diventa parte della rete diplomatica della Santa Sedela Repubblica Islamica di Mauritania. Mentre si lavora ancora, ma è un obiettivo vicino, per includere il Vietnam tra le nazioni con cui si scambia ambasciatori, è possibile ed auspicabile che con il prossimo Papa non ci saranno più Stati a non avere nemmeno una minima relazione con la Santa Sede, e a non guardare al Papa come punto di riferimento. 

Nemmeno il Laos, l’ultimo baluardo comunista, cui il Papa ha donato un cardinale e i primi beati  della nazione, perché questi testimoni sappiano abbattere le ultime barriere.

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