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Un servizio di EWTN News

Meeting, l'esperienza di APAC in Brasile

Al Meeting che si conclude a Rimini due mostre sono preferite dai visitatori ed entrambe parlano della misericordia del perdono: ‘L’abbraccio misericordioso. Una sorgente di perdono’, che prende spunto da una frase di san Paolo ai Romani: ‘in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio’.

Questa debolezza mina tutta la capacità di relazioni, eppure così fondamentali, così che sembrano vincere l’interesse, la violenza e il possesso. Però Dio ha mostrato un modo nuovo ed inedito di stabilire e mantenere rapporti, che si chiama Misericordia educando così l’umanità a desiderare un cuore nuovo come il Suo, capace di amare, di perdonare, di vincere il male con il bene. Il culmine di questa iniziativa è l’incontro con Gesù. Da allora la Misericordia ha un volto umano, è una esperienza umanamente possibile e accessibile. Chi ne ha fatto esperienza, come Zaccheo, l’adultera o il buon ladrone accanto alla croce di Gesù, è rinato come persona, ha potuto sperimentare il dono di un cuore nuovo. Da allora, coloro che sono assimilati a Gesù, hanno iniziato a immettere nella storia del mondo una modalità diversa di guardare gli altri e di vivere tutte le relazioni, che riverbera le caratteristiche di tenerezza e misericordia proprie di Dio.

L’altra, gettonatissima al pari di quella su madre Teresa, racconta tante storie di perdono e di redenzione dal carcere: ‘Dall’amore nessuno fugge. L’esperienza delle APAC in Brasile’. All’ingresso della mostra, visitata dopo un’ora di fila, campeggia una frase: ‘Qui entra l’uomo, il delitto rimane fuori’, che è la frase che si incontra prima di entrare nelle carceri APAC in Brasile, dove le chiavi del carcere sono nelle mani dei recuperati - carcerati. APAC è un esempio clamoroso del metodo con cui il mondo può cambiare.

L’origine e il soggetto di questa esperienza è un piccolo gruppo di persone che, affascinate da Cristo, cominciano a generare un vincolo di amicizia che si compromette con la realtà e che li porta a introdurre un cambiamento anche a livello sociale e politico. Le APAC non si propongono come obiettivo quello di essere una alternativa al sistema comune delle carceri, ma si pongono come un'esperienza esemplare di come si può ‘recuperare l’uomo rimuovendo il criminale’. Così Cledorvino Belini, presidente Sviluppo di Gruppo FCA (Fiat Chrysler Automobiles) dell’America Latina; Daniel Luiz da Silva, un ex carcerato; Valdeci Antônio Ferreira, direttore generale di FBAC (Fraternidade Brasileira de Assistência aos Condenados); Luiz Carlos Rezende e Santos, giudice di esecuzione Penale del Tribunale di Giustizia di Minas Gerais, hanno raccontato il tema delle carceri e del reinserimento nella società attraverso una rieducazione al perdono ed alla misericordia.

In America Latina e in particolare in Brasile la violenza aumenta, sembra che la sicurezza sia un sogno irraggiungibile per l'attuale società, la gente si sente sempre più minacciata in prima persona, bombardata da notizie di furti, assalti, stupri di massa su giovani donne, come è avvenuto di recente a Rio de Janeiro. Le vittime crescono spaventosamente, si percepisce che il cerchio si stringe e che in qualsiasi momento ognuno di noi potrà essere vittima della criminalità. Come risposta lo Stato ha incrementato fortemente la via del carcere e la società ha messo in dubbio il concetto di risocializzazione dei detenuti, in un sistema dove il costo del detenuto è altissimo ed equivale ad un investimento tre volte maggiore di quello che serve a mandare un bambino a scuola. In questo contesto sul suolo brasiliano da oltre 40 anni esistono le APAC (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati), un’esperienza che sorprende per l’originalità del metodo e per i risultati, e si inserisce in modo contundente e provocatorio nel dialogo internazionale sul tema.

Infatti le APAC sono delle carceri dove i ‘recuperandi’, come sono chiamati i detenuti, scontano la pena come stabilito dalla legge ma attraverso una metodologia basata sulla umanizzazione della pena stessa, trasformando così il carcere in una circostanza di risocializzazione reale e di re-inserimento nella società. L’esperienza delle APAC nasce nel 1972 nello stato di San Paolo su iniziativa del fondatore l’avvocato e giornalista Mario Ottoboni ed è il ‘risultato della società civile organizzata, che assume la responsabilità di rispondere a una necessità molto grave, che è il sistema carcerario brasiliano, e indica una soluzione’. La prima esperienza APAC fiorisce grazie ad un gruppo di volontari legati alla Pastorale Carceraria che si chiamavano ‘Amando il Prossimo Amerai Cristo’. Successivamente viene creata un’entità di diritto privato senza fini di lucro e di utilità pubblica che passa a denominarsi ‘Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati’, con la finalità di recuperare il condannato, proteggere la società, soccorrere la vittima e promuovere la giustizia.

Come hanno sottolineato i relatori il sistema carcerario brasiliano è fallito, perché esistono oltre 600.000 detenuti, che vivono in situazioni disumane, senza il minimo rispetto dei diritti umani. Le APAC sono carceri più efficienti ed efficaci dove non sono mai avvenute rivolte, hanno un costo di mantenimento corrisponde ad 1/3 delle carceri comuni, e la recidiva dopo la pena è molto bassa tra il 15 e 20% contro il 75% di media. Nello stato del Minas Gerais esistono 39 unità in funzionamento che ospitano quasi 3.000 detenuti su un universo totale di 67.000 in tutto il territorio. Altre 50 associazioni APAC sono state costituite, e lo stato di Minas Gerais si è posto come meta quella di raggiungere il 10% del numero di detenuti ospitati nelle APAC entro il 2017 (oltre 6.000 detenuti).

Molti stati brasiliani hanno aderito al metodo, dove esistono 9 APAC in funzionamento e 148 in attesa di avvio e il modello si è diffuso oltre il Brasile con una presenza in altri 23 paesi nel mondo. Il metodo si basa su tre pilastri: l’amore incondizionato, la disciplina e la fiducia, elementi fondamentali che nascono da molti anni di convivenza con i detenuti. Alcuni aspetti fondamentali del metodo riguardano il coinvolgimento della famiglia; la partecipazione della comunità; l’attenzione alla salute; l’aiuto mutuo tra i carcerati; la religiosità, proclamata dal metodo APAC come riconoscimento del nesso indissolubile dell’uomo col Mistero. Ed il successo del metodo è confermato dal racconto dell’ex detenuto Daniel Luiz da Silva, che ha esordito dicendo che ora lavora regolarmente da 8 anni ed è padre di tre bambini: “Il carcere è il ritratto della degradazione umana. Entri cattivo, esci spazzatura.

Nelle APAC rinasci, sei valorizzato, capisci di essere importante. Siamo come un gruppo di formiche. Abbiamo imparato che tutti hanno bisogno gli uni degli altri. Nel carcere tradizionale sei dietro alle sbarre, controllato da guardie armate; nelle APAC sei ammanettato solo dal tuo cuore”. Poi ha raccontato dell’incontro con suo padre, un incontro insperato, che mostra che la misericordia ha strade diverse dal nostro pensiero: “Lui ha abbandonato la famiglia quando avevo solo sei mesi, lasciando sola mia madre con sette figli, che cercò di uccidersi e fu rinchiusa in manicomio… Ho pregato tanto di conoscere mio padre. Quando l’ho incontrato l’ho abbracciato e gli ho chiesto la sua benedizione, dicendogli quanto mi era mancato”. Anche in Italia stanno avviandosi queste esperienze di perdono e misericordia partendo dalle parole di papa Francesco: “Al principio del dialogo c’è l’incontro. Da esso si genera la prima conoscenza dell’altro. Se infatti si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova”.

Le esperienze di un percorso di incontro tra autori e vittime di reato negli ‘anni di piombo’ iniziato ormai da 7 anni sono state raccolte ne ‘Il libro dell’incontro’ curato dal padre gesuita Guido Bertagna, dalla giurista Claudia Mazzucato e dal criminologo Adolfo Ceretti. Queste parole di papa Francesco citate da Adolfo Ceretti, docente di criminologia dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono bene il percorso che da sette anni hanno incominciato alcune decine di persone, tra le quali autrici e vittime dei reati commessi negli anni di piombo. Agnese Moro, figlia di Aldo Moro e Maria Grazia Grena, già appartenente alle organizzazioni di lotta armata degli anni ‘70, hanno accettato di raccontare con grande intensità e drammaticità umana il loro percorso personale. Per Agnese Moro di fronte alla constatazione che ‘la giustizia penale non può aiutare il disperato bisogno di una giustizia per sé e per chi non meritava quella fine’ si frappone un ostacolo: “Quel che la violenza crea è trasformare le persone in cose. Poco importa se siano le persone uccise o chi ha ucciso. Diventano ‘le vittime’ o ‘i colpevoli’.

E a questo punto non c’è dialogo perché le cose sono inanimate”. La stessa scoperta è stata di Grena, che pensava di avere chiuso i conti con quel passato, avendo scontato la pena, ottenuto la riabilitazione ed essersi rifatta una vita anche impegnata nel sociale: “Volevamo la vita e abbiamo dato la morte; ma ritrovare le motivazioni che ci avevano mosso è stato estremamente importante per ritrovare le ragioni del vivere ora. Ho ritrovato quella stessa passione di quando a vent’anni ho distrutto la mia vita e quella degli altri”. E la figlia di Moro ha concluso: “Bisogna tornare ad essere persone gli uni per gli altri, con un’anima, sentimenti aspettative… Pensavo che il dolore sia in esclusiva di noi vittime ed invece ho visto che il dolore è anche il loro con queste persone siamo rinate insieme esseri umani vivi, rimettendo il passato, pur orrendo, al suo posto”.

 

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