Città del Vaticano , 03 August, 2016 / 12:00 AM
Come esorta continuamente Papa Francesco, la Chiesa non deve aver paura di stare sui social network. Ma come “leggere” i social, come usarli per la evangelizzazione?
A queste domande risponde il nuovo libro di Giovanni Tridente e Bruno Mastroianni, entrambi docenti alla Pontificia Università della Santa Croce: “La missione digitale. Comunicazione della Chiesa e social media". Tra i saggi anche un testo di Daniele Chieffi, social media manager di ENI, e Daniele Bellasio, responsabile deIlSole24Ore.com.
Aci Stampa ha incontrato gli autori.
Per prima cosa: a chi è rivolto? Studenti, operatori dei media della Chiesa certo, ma anche alle persone che vogliono imparare a leggere i social?
La comunicazione non è più qualcosa solo per professionisti e per addetti ai lavori. Siamo tutti coinvolti, con la nostra vita in Rete, nel contribuire alla conversazione globale a cui le tecnologie digitali ci hanno introdotto. Tutti hanno bisogno di riflettere su questa attività ordinaria per dargli senso e contribuire al bene comune. Questo testo nasce per chi vuole stare online in modo consapevole.
Qual è la situazione ecclesiale in Europa nei confronti dei social? Chi è più presente come fascia di età a prescindere dal tipo di social?
I dati parlano di una popolazione soprattutto giovane ma negli ultimi anni anche le fasce di età più alte hanno incominciato ad essere sempre più presenti. In Italia è connessa solo la metà della popolazione ma per esempio come uso dei social la cosiddetta generazione X (35-54 anni) è connessa al 55% e passa più di 13 ore al mese online, mentre i millennials (18-34 anni) sono connessi al 65% e passano più di 19 ore. I boomers (55 anni+) sono connessi al 20% e passano quasi 9 ore. Dati che parlano di uno scenario ormai consolidato e in continuo sviluppo.
La evangelizzazione passa davvero attraverso snapchat?
La evangelizzazione passa dappertutto. I luoghi digitali sono luoghi. Con le loro caratteristiche, i loto tempi e linguaggi. Luoghi dove si stabiliscono relazioni tra persone. È bene perdere la visione di internet-strumento. Se togliamo la parte tecnologia quello che rimane dell’essenza di ogni social, anche di Snapchat, sono le persone che entrano in relazione tra di loro in quel luogo digitale. Non esiste luogo, dove ci siano esseri umani, che non può essere permeato dal messaggio del Vangelo.
Gli scenari che descrivete sono molto tecnici per spiegare il mondo social, ma alla fine chi vuole dei contenuti legge articolo interi su siti, mentre i social fanno solo “tendenza"?
I social sono luoghi di relazione. È nelle relazioni (amicali, educative, sociali) che si ricevono e si danno suggerimenti su letture, visioni, opinioni, idee, persino momenti di svago. Non vedrei due momenti diversi tra social e contenuti sui siti, quanto piuttosto l’interessante scambio, condivisione e rielaborazione che di quei contenuti si può fare mentre si conversa online.
I social sono una piazza, ma amplificata all'infinito, come difendersi dalla "chiacchiera" senza fondamento?
Nello stesso modo con cui ci si difende in qualsiasi piazza: stando accorti e non accontentandosi della prima cosa che si sente dire. Il problema è che sui social il livello di consapevolezza di dove si è - immersi in una serie di relazioni e non in uno strumento informativo freddo - è spesso bassa. Ci sono utenti che possono avere l’illusione che la loro timeline è la finestra sul mondo mentre in realtà è solo lo scorcio su un piccolo orticello di opinioni omogenee. Occorre aprire gli orizzonti, informarsi, sviluppare senso critico e avere buone fonti. La sfida online e offline è esattamente la stessa, cambia solo il luogo.
E' sempre più evidente che è "virale" ciò che è "di moda", i social quindi sono sempre più a rischio manipolazione?
È virale ciò che intercetta l’interesse umano. Può farlo cogliendo gli istinti più bassi come appellandosi alle aspirazioni più alte. Stessa cosa è la moda: è perfettamente umano sviluppare tendenze che aggregano interessi e gusti, è un modo per riconoscersi. Sono tutti elementi del comportamento che, con le tecnologie, vengono semplicemente amplificati e potenziati. Le ombre possono essere più scure, è vero, ma anche le luci sotto queste lenti possono essere più luminose. Il problema è che spesso nelle riflessioni sul Web ci si concentra nello spegnere la tecnologia per non esagerare, e si riflette poco su come essere più luminosi una volta che si mette su “on”. Noi nel nostro testo offriamo alcune piste.
I media digitali non sono i social: che valore ha per la Chiesa la comunicazione “tradizionale"?
Una distinzione tra comunicazione “tradizionale” e non tradizionale è ormai impossibile oggi. Una conferenza stampa finisce su twitter prima del resoconto ufficiale. L’omelia di un sacerdote in provincia ripresa con un cellulare e messa su Facebook può arrivare sui media internazionali. Non ci sono più compartimenti stagni. Nel libro parliamo di comunicazione a cerchi concentrici e della capacità di promuovere cultura perché oggi non si tratta più di procedure e azioni ma tutti, volenti o nolenti, sono attori della comunicazione della Chiesa. Anche l’ultimo fedele nel suo modo di postare su Facebook sta rappresentando in qualche modo la Chiesa. Cultura della comunicazione è ispirare anche lui a stare online come uno che crede nel Vangelo.
Oltre i tecnicismi che indicazioni dare a parrocchie, diocesi e fedeli?
Presenza e dialogo. Presenza nel senso di essere presenti nei luoghi digitali, cimentarsi, frequentarli, ascoltare le persone che sono già lì, imparare, provare, muoversi con umiltà. È un mondo da scoprire come fecero i missionari con le nuove terre. E poi dialogo: l’esperienza online è reale tanto quella fisica. Bisogna parlarne. A casa, a scuola, in parrocchia, nella direzione spirituale. È una parte della vita di ciascuno importante e ha che fare con le relazioni, con i significati, con il nostro modo di interagire con la complessità del mondo. Non si può tagliare fuori dall’esperienza di fede.
(La storia continua sotto)
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