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Gli apostoli della penna: quando la fede diviene letteratura. Charles Péguy

Charles Péguy

La Scrittura, nel corso della storia della letteratura, molte volte è passata attraverso la scrittura, quella con la “s” minuscola. Le pagine di molti libri ci danno testimonianza di questo percorso. E possiamo definirlo percorso, visto che in esso confluiscono diverse biografie, esperienze del sacro, che costituiscono dapprima un cammino personale (quello dello scrittore), per poi divenire “universale”, quello del pubblico di lettori. E’ interessante notare come i due termini, “Scrittura e scrittura” (con la “s” minuscola), siano stati - diverse volte - molto vicini fra loro. La letteratura, nella sua complessità di forme -  prosa o poesia, ad esempio - ha raccolto prestigiose penne, menti sublimi che dal tema del sacro, della fede, hanno attinto. 

Acistampa propone un breve viaggio, un rapido volo, sulle figure più importanti (e a volte nascoste) di questa particolare tipologia di letteratura. Potremmo definirli “Apostoli della penna”: donne e uomi che con la loro scrittura hanno testimoniato la bellezza e la grandezza di Dio.

Poesia estrema così come è stata estrema la sua vita. E’ il poeta Charles Péguy (Orléans, 7 gennaio 1873 – Villeroy, 5 settembre 1914)  il protagonista di questa puntata del viaggio fra i nomi della letteratura che hanno cercato di spiegare il mistero e la grandezza di Dio. La città d’origine del poeta può dire molto: Orléans, la citta della Pulzella, di Santa Giovanna D’Arco. Intreccio curioso, una “Dioincidenza” si direbbe oggi. E’ della Pulzella sembra ereditare il coraggio guerriero, Péguy. Nasce socialista, muore convertito cattolico:una vita costellata di viaggi e di guerra. Uomo di lettere e di scienza: nell’agosto 1894 Péguy è ammesso all’università (Scuola normale superiore); a ottobre, la licenza in lettere; nell’agosto del 1895, il baccalaureato in scienze. Niente Dio nella sua vita, nessuna fede se non nella scienza, nell’uomo, nel socialismo. Fino a quando scriverà in una famosa lettera del settembre 1908 indirizzata all’amico Rene Johannet: “Io non sono un convertito. Sono sempre stato cattolico”. E così ritorna a un suo vecchio dramma (scritto prima soprattutto sotto l’aspetto storico e narrativo): è Il mistero della carità di Giovanna d’Arco del 1909. Si passa così dal “Dramma” al “Mistero”, quello religioso, quello che la mente razionale non riesce a comprendere. Péguy, in quel momento della sua biografia, sente il bisogno di riscrivere la sua prima opera ma con parole nuove, con una nuova sensibilità che diviene un misto di misticismo e di pragmatico senso del vivere. 

Con il poeta francese, allora, si inaugura nel ‘900 francese una riproposizione della serie di Misteri tanto cari al lontano Medioevo. Nascono: Il Portico del mistero della seconda virtù (1911) e Il mistero dei Santi Innocenti (1912). I versi del Portico affrontano, fra i tanti temi, quello della speranza: “La fede/ che preferisco, dice Dio, è la speranza./ La fede non mi stupisce./ Non è stupefacente./ Risplendo talmente nella mia creazione./ Nel sole e nella luna e nelle stelle./ In tutte le mie creature./ Negli astri del firmamento e nei pesci del mare./ Nel movimento degli astri che sono nel cielo./ Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia sulla vallata./ Nella vallata calma./ Nella vallata quieta./ Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste./ E nell’uomo./ Creatura mia./ Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli./ Nell’uomo e nella donna sua compagna./ E soprattutto nei bambini./ Creature mie”. E’ tutta la Creazione che partecipa alla speranza della fede che diviene, a sua volta, vita vissuta nelle “piante”, nel “vento”, e soprattutto nell’uomo, nei “bambini”. E sempre nel Portico, troveremo: “Ci sono dei giorni nell’esistenza in cui si sente che non ci si può più contentare dei santi patroni. Bisogna salire direttamente fino al buon Dio e alla Santa Vergine”.

L’abbandono a Dio, alla sua volontà, e l’abbandono alla vita condotta dal Signore saranno matrici solide nel suo vivere quotidiano di uomo e di poeta. Come scriverà all’amico Peslouan, l’autore francese dovrà “riconoscere che la sua scala di valori è stata completamente rovesciata” nel corso del 1912. Egli sa ormai, come scrive ad Alain-Fournier nell’agosto 1913, poco dopo il ritorno da un secondo pellegrinaggio a Chartres, che “bisogna essere più che pazienti, bisogna abbandonarsi”. Nel dicembre 1913 esce un altro testo colossale: il poema Eve, composto da ben 7644 versi. Un’opera colossale che sconcerta il pubblico per l’ampiezza e i temi: “E s’innesta nel suol e tocca fin in fondo ed anche il tempo è un tempo intemporale. E l’albero della grazia e l’albero della natura han legato i due tronchi con nodi così solenni, han talmente unito i loro destini fraterni da formar un’unica essenza e un’unica statura”.

Ma è la Vergine Maria ad occupare un posto di rilievo nella sua poetica. Sorprende non poco che un uomo in fin dei conti duro, polemista, “guerriero” (proprio come la Pulzella d’Orleans) nel parlare della Madonna si converta a divenire quasi bambino. Bisogna ricordare che nel suo cuore avranno importanza diversi suoi pellegrinaggi a Chartres. Fra lui e la Vergine si tratta di un vero e proprio rapporto filiale in pieno abbandono. Non si trova in Péguy separazione tra esistenza e letteratura, tra vita e poesia: ogni libro è una testimonianza vissuta. Ad esprimere bene questo carattere mariano è il suo L'Arazzo di Nostra Signora (del 1913), opera dedicata a chi è “Infinitamente umile. Una giovane madre. A colei che è infinitamente giovane Perché è anche infinitamente madre. A colei che è infinitamente eretta. Perché è anche infinitamente china. A colei che è infinitamente gioiosa.  Perché è anche infinitamente addolorata.(...) A colei che è infinitamente commovente. Perché è anche infinitamente commossa. A colei che è tutta Grandezza e Fede.  Perché è anche tutta Carità. A colei che è tutta Fede e Carità. Perché è anche tutta Speranza”.



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