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Un servizio di EWTN News

Il martiro di Don Giuseppe Diana, una storia da non dimenticare

“Desidero, dunque, rivolgere un pensiero paterno all’intera Comunità diocesana e specialmente ai fedeli della Parrocchia di Casal di Principe che, nel fare memoria di don Peppe, come affettuosamente veniva chiamato, vuole vivere la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa. La mia riconoscenza va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che don Diana ha avviato come assistente spirituale di associazioni e di gruppi di fedeli, in particolare di giovani e di realtà legate agli scout”: con queste parole papa Francesco ha ricordato il trentesimo anniversario di don Giuseppe Diana, richiamando l’omelia del sacerdote pronunciata nel Natale del 1991, ‘Per amore del mio popolo’.

Parole che richiamano altre parole: ‘Il 19 marzo è morto un prete, ma è nato un popolo’, quelle di  mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, nei funerali di don Peppe Diana, assassinato dalla criminalità organizzata nel 1994. Infatti quel giorno nacque un popolo che si identifica nella lotta alla criminalità organizzata, alle ingiustizie, alle disparità, in nome di quel sacerdote che non aveva avuto paura di fronteggiare i ‘cattivi’, come ha detto il coordinatore del Comitato ‘Don Peppe Diana’, Salvatore Cuoci.

Don Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio del 1958. Il papà, Gennaro e la mamma Iolanda di Tella, vivono lavorando la terra. Giuseppe è il primo di tre figli. Gli altri due sono Emilio e Marisa. Giuseppe entra nel seminario vescovile di Aversa nell’ottobre del 1968, appena compiuto i dieci anni di età,  dove consegue la licenza media e quella classica liceale. La famiglia faceva enormi sacrifici per farlo studiare. Il padre doveva pagare una retta. Ma ai genitori interessava innanzitutto toglierlo dalla strada. Casal di Principe era un paese difficile.  Tornava a casa solo a Pasqua e a Natale.

Conseguì la licenza liceale con ottimi voti. Tanto che vinse anche una borsa di studio. Il Vescovo dell’epoca, mons. Antonio Cece, diceva che Giuseppe non era un prete come gli altri e  che doveva fare carriera, doveva andare a Roma. Fu ordinato sacerdote il 14 marzo del 1982. Don Diana, da giovane prete, aveva un rapporto speciale con i ragazzi. Anche perché nel frattempo era diventato uno scout. Era il responsabile diocesano dell’Agesci, gli scout cattolici, ed era anche cappellano dell’Unitalsi. Accompagnava i malati nei viaggi a Lourdes, perché era anche assistente nazionale del settore Foulard Blanc. Il 19 settembre del 1989 è nominato parroco della parrocchia di San Nicola a Casal di Principe.

Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo del 1994, poco dopo le ore 7,20 del mattino, nel giorno del suo onomastico nella sua chiesa della parrocchia di San Nicola di Bari. Gli spararono contro quattro colpi di pistola mentre si preparava per celebrare la messa. Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di Giustizia.  Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo.

A 30 dalla morte abbiamo chiesto a Salvatore Cuoci di spiegarci il significato di ricordare un uomo che ha lottato per il Vangelo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce della Chiesa: così inizia la Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ‘Gaudium et Spes’, il documento conciliare promulgato da san Paolo VI nel 1965 che riflette, tra l’altro, sull’urgenza del tempo di manifestare un impegno comune per la pace e la giustizia.

Quella stessa pace e giustizia per cui si è battuto don Peppe Diana, accogliendo gli immigrati nella sua parrocchia, donando ai ragazzi del quartiere un orizzonte più vivibile, contrastando la camorra ed i soprusi di cui si nutriva, spezzando il cerchio dell’indifferenza e le catene che tenevano imprigionato un popolo. Perché la Chiesa non è cosa altra rispetto al territorio, ma lo vive fino in fondo, con le medesime urgenze e le stesse attese della gente. E per questo suo impegno di incarnare il Vangelo, don Peppe è stato ucciso dalla camorra. Farne memoria, significa rinnovare il suo impegno dentro un percorso di libertà”.

Per quale motivo non ha taciuto?

Nel documento ‘Per amore del mio popolo’, don Peppe scrive che ‘Dio ci chiama ad essere profeti. Il nostro impegno di denuncia non può venir meno. Il profeta fa da sentinella, vede l’ingiustizia e la denuncia’. Don Peppe ha incarnato fino in fondo il messaggio di Isaia, non nascondendosi dietro la tunica né voltandosi dall’altra parte di fronte allo strapotere dei camorristi, ma affrontando con le armi del Vangelo, con la forza della parola, il male che circondava il territorio, cercando nell’annuncio le parole da gridare dai tetti, nella testimonianza e nell’agire coraggioso, il senso pieno della vita. Non poteva tacere don Peppe, ha scelto di non farlo, per amore del suo popolo, solo per amore”.

 Quale era il suo rapporto con i giovani?

“Don Peppe amava i giovani, erano il suo nutrimento, la sua gioia ed anche il suo tormento perché non ne riusciva a salvare abbastanza. La  parrocchia era piena di ragazzi, giovani che hanno imparato a saper stare con altri giovani, che hanno imparato, in quegli anni complicati, le prime regole di convivenza, a stare fuori casa ai primi campi scuola, che hanno imparato a camminare da soli. Li amava don Peppe i giovani, e li rimproverava anche, con il suo carattere forte, diretto, schietto, salvo poi prenderli per mano e con una carezza, continuare a camminare insieme”.

 Quanti frutti sono nati dall’uccisione di don Peppe Diana?

“Quando i camorristi uccisero don Diana, lo fecero con l’intento di uccidere anche la speranza perché questi territori dovevano restare imprigionati dalla criminalità, condannati a restare terre di camorra e di malaffare. Invece quella morte, quel sangue versato ha cominciato a produrre frutti, cambiamenti, resistenze, lotte di libertà.

Ci siamo ripresi dapprima i terreni confiscati ai mafiosi, li abbiamo messi a coltura e abbiamo prodotto frutti buoni e giusti; dalla pasta al vino, dall’olio ai sottaceti, dalla cioccolata ai succhi di frutta, dalla passata di pomodoro fino al pacco alla camorra, un contenitore non solo di prodotti della terra, ma ricco di storie, di narrazioni sociali, di cambiamenti, di sogni, giunti perfino al Parlamento Europeo.

Poi ci siamo ripresi anche le loro case e ne abbiamo fatto centri di aggregazione, luoghi di incontro e di accoglienza, punti di lettura, di presentazione di libri e film, sedi di dibattiti, seminari, teatro, laboratori, mostre. E’ il segno concreto e tangibile che  ‘si può fare’ che è possibile sperare che un giorno possiamo essere tutti liberi dalla camorra”. 

A 30 anni dalla sua uccisione quale è l’eredità di don Diana?

“Don Diana ci lascia un patrimonio di impegno e di verità, uno sguardo fiero, autentico, rivolto al futuro che viene e al presente che viviamo. Ci lascia la voglia di esserci, il grido di libertà e la risalita sui tetti per annunciare parole di vita. Don Peppe ci lascia tutto se  stesso, la sua vita per riscattare le nostre imprigionate dalle mafie e dalle camorre”. 

A quale punto si trova la causa di beatificazione di don Diana?

“Siamo tra i promotori dell’inizio del percorso di beatificazione di Don Peppe. Otto anni fa abbiamo presentato una lettera accolta dal vescovo, con cui si diede il via ad una raccolta di testimonianze, scritti, documenti. E’ una strada che tutto sommato appare già tracciata. A noi interessa il riconoscimento della storia di un sacerdote che viene ucciso da camorristi, il riconoscimento di un martirio accertato. Ma guai a pensare a don Peppe su un piedistallo! Noi vogliamo don Peppe che continui a stimolarci, che continui a prenderci per mano per spronarci. Un ‘don Peppe’ vivo!”.

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