Città del Vaticano , 23 January, 2016 / 9:00 AM
E’ una Cina più vicina, quella tratteggiata dall’arcivescovo Claudio Maria Celli nella presentazione del libro “Il Vangelo oltre la Grande Muraglia” lo scorso 8 gennaio. Perché “i cattolici in Cina sono ancora come uccelli in gabbia”, ma di certo “è una gabbia più larga di quella di quarant’anni fa”. Una gabbia resa più larga anche grazie all’impegno incessante dei Papi. In particolare, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che “sapeva già cosa fare, perché Giovanni Paolo II non prendeva una decisione senza chiedere al Cardinale Ratzinger”. E oggi c’è Papa Francesco, che “andrebbe in Cina anche domani”.
Claudio Maria Celli, attualmente presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, ha un passato da diplomatico vaticano. Si è occupato a lungo della questione cinese, ha partecipato ai tavoli di dialogo, e anche ai tavoli interni in Segreteria di Stato che, fino a poco tempo fa, si tenevano periodicamente per discutere di Cina.
Se c’è un Vangelo oltre la Grande Muraglia, ci sono infatti uomini del Vangelo che si accontenterebbero di guardare oltre la Grande Muraglia. Papa Francesco ci è parzialmente riuscito: per due volte, nel suo pontificato, il volo papale è stato autorizzato ad attraversare lo spazio aereo cinese. Non era mai successo prima. Ed oggi la diplomazia pontificia lavora in maniera sottile, cercando un colloquio con il governo che ad alcuni, specialmente nella Chiesa di Cina, appare un compromesso, ma che per l’arcivescovo Celli è l’unica via possibile.
“Il mio rapporto con la Cina – racconta l’arcivescovo Celli - è cominciato molti anni fa. Era il 1982, al tempo di Papa Giovanni Paolo II, io ero appena tornato dall’Argentina. I miei superiori mi affidarono il desk dell’Estremo Oriente in cui emergeva fortemente il tema cinese. La situazione cinese, ecclesiale, era particolarmente complessa. Dopo il ’58 erano cominciate le prime ordinazioni episcopali illegittime e la Santa Sede aveva risposto in maniera molto forte – come tutti ricorderanno abbiamo in quegli anni due encicliche di Pio XII (Ad Sinarum Gentem e Ad Apostolorum Principes, ndr)”.
Ma questo intervento “non aveva posto termine a questo cammino di ordinazioni illegittime in Cina”. Di certo – aggiunge l’arcivescovo Celli – “non si era mai usata, e la Santa Sede non ha mai usato la parola scisma. C’era stato un piccolo accenno molto velato, soft, di Giovanni XXIII, il quale non aveva fatto affermazione, ma aveva detto: “Il mio labbro trema a pensare questa parola”. Ad ogni modo, la Santa Sede non ha mai qualificato l’esperienza ecclesiale cinese sotto il nome di scisma, pur avendo una consistenza numerica di vescovi illegittimi più che considerevole”.
Le ordinazioni clandestine si moltiplicavano negli anni Ottanta, e l’arcivescovo Celli confida l’emozione nel ricevere i bigliettini scritti in latino in cui era scritto “Ego consecravi episcopus” e la data.
“In quell’epoca – racconta l’arcivescovo – toccava a me redigere l’appunto che informava il Santo Padre delle ordinazioni episcopali clandestine. E queste avevano un ritmo marcato. A volte in una diocesi si consacravano tre vescovi clandestini, mantenendo uno stile che si era consolidato negli anni della presidenza di Mao Tse Tung, e cioè quello di affidare la responsabilità di una diocesi a tre ecclesiastici, così da superare gli arresti”.
Si è trattato di un cammino non facile. “Dobbiamo a Giovanni Paolo II, al Cardinal Agostino Casaroli, all’allora monsignor Silvestrini i primi passi di un colloquio con le autorità civile. Ci sembrava impossibile potere cominciare un rapporto più attento alla grande e complessa realtà della Chiesa in Cina senza avere un colloquio con le autorità cinesi”.
Si parla spesso di una Chiesa ufficiale e di una Chiesa clandestina in Cina, ma l’arivescovo Celli rigetta questa dicotomia. “In Cina abbiamo una sola Chiesa, con una comunità ufficiale e con una comunità clandestina. Ma abbiamo una sola Chiesa. Non posso dimenticare certe lettere che vescovi clandestini scrivevano al Papa, manifestando la propria fede e la propria comunione”, afferma l’arcivescovo Celli. E poi ricorda: “Un giorno leggevamo di fronte al Papa una di queste lettere, di un vescovo illegittimo, e io dissi al Papa: Padre Santo, ci sarebbero vescovi legittimi nel mondo che non scriverebbero mai una lettera del genere.”
“È stata una delle grandi decisioni di Giovanni Paolo II nel poter recuperare un rapporto di comunione con tutti quei vescovi che nel corso degli anni avevano accettato di essere ordinati illecitamente”, ricorda ancora Celli.
Un altro tema era quello di sostenere la comunità clandestina, che non aveva accettato di essere ufficiale. Così si viveva “una grande tensione bipolare:da un lato sostenere il cammino di fedeltà della Chiesa cattolica che aveva accettato la clandestinità, dall’altro il recupero alla piena comunione di coloro che avevano cercato determinate realtà”.
La sollecitudine dei Papi verso la Cina è costante. “Ricordo ancora che quando Giovanni Paolo II era già in sedia a rotelle, mi domandava: ‘Pensa che ce la farò ad andare a Pechino?’”
Racconta l’arcivescovo Celli che “Benedetto XVI ha continuato sulla stessa scia. Se mi permettete, non violo qui nessun segreto di ufficio, il cardinale Ratzinger era stato sempre coinvolto nel dialogo sulla Cina. Toccava a me andare a parlargli, perché il Papa prima di prendere una decisione voleva sapere cosa pensava il Cardinale Ratzinger, specialmente dove c’erano tematiche di una delicatezza impressionante, di delicatezza teologica, di riflessione”.
“Per questo, quando il Cardinale Ratzinger divenne Papa, sapeva perfettamente cosa era il cammino del dialogo con la Cina. Con le autorità cinesi. Questo è stato direi che per lui un cammino che poi l’ha condotto nel 2007 alla pubblicazione della famosa lettera ai cattolici cinesi, una lettera di una grande apertura. Papa Benedetto ha aperto in maniera quasi silenziosa, ma direi quasi in forma naturale determinate porte che rispondevano a delle problematiche che la comunità cinese soffriva profondamente. È possibile passare da una clandestinità ad una ufficialità? È possibile stabilire un dialogo con le autorità cinesi?”
Il dibattito è aperto, anche all’interno della stessa comunità cinese. Ma “la vita propria della Chiesa non è la clandestinità. Va in clandestinità unicamente di fronte a determinate situazioni, ma il cammino proprio della Chiesa non è la clandestinità, ma è la testimonianza della luce del sole. Benedetto XVI ha richiamato determinate realtà, pur riaffermando determinati principi che sono fondamentali per noi cattolici”.
Ricorda l’arcivescovo Celli: “Innegabilmente Papa Benedetto era favorevole a proseguire nella linea del dialogo con le autorità cinesi. Quello che ho sempre apprezzato in lui era il fatto di essere tremendamente libero nella consapevolezza che quello era il cammino da scegliere in questo momento. E Papa Benedetto ha guidato la Segreteria di Stato e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli in questo cammino”.
“Papa Francesco si pone nella stessa scia. Il dialogo non è facile. Io dico sempre un poco scherzando che siamo due entità un poco dogmatiche. Loro e noi. Ed è innegabile che partiamo da contenuti culturali, divisioni d’insieme, particolarmente diverse. Basti pensare solo ad una definizione: la Chiesa cattolica in Cina. Che cosa vuol dire? Oggi, se io domando ai cinesi, loro diranno Chiesa Cattolica in Cina, ma è innegabile che noi diamo alle due espressioni un contenuto leggermente diverso. C’è una semantica legata a loro che è quella di una Chiesa indipendente, autonoma, che ancora ha delle ripercussioni”.
Ma c’è anche ottimismo. “Il martirio della pazienza si può applicare anche alla Cina. Dobbiamo andare avanti assolutamente. Non si può rimanere legati a formulazioni da torre d’avorio. Il grande cambiamento, la grande sottolineatura che Papa Francesco sta portando è proprio di questa dimensione ecclesiale. E oggi la Santa Sede è in un dialogo forte. Quando termineremo? Anche io vorrei saperlo”.
Di certo, le cose sono migliorate. “Ho usato molte volte un esempio, quello del bellissimo uccello in gabbia. Ritengo ancora che siamo ancora in gabbia, ma quando cominciai il dialogo la gabbia era piccola, oggi è molto più grande. Quando cominciai ad occuparmi di Cina non si poteva nemmeno menzionare il nome del Papa nella celebrazione eucaristica, oggi tutti i sacerdoti menzionano la comunione ecclesiale. Si è camminato e quel cammino è l’unica soluzione che abbiamo, l’unico percorso che possiamo fare insieme, confrontandoci, vedendo il come, in che misura, perché abbiamo realtà ricca”.
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