Roma, 07 February, 2024 / 6:00 PM
“Quel che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l’esperienza non sta cercando di ingannarvi. L’universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente”: così invitava i suoi lettori Clive Staples Lewis, che nasce a Belfast il 29 novembre 1898.
La sua carriera inizia dall’insegnamento della ‘Lingua e Letteratura Inglese’ all’Università di Oxford, dove diviene amico intimo dello scrittore John Ronald Reuel Tolkien, autore di ‘Il Signore degli anelli’. C.S. Lewis non è solo conosciuto per la serie di ‘Le Cronache di Narnia’ (composta da sette libri), ma anche per i suoi libri di riflessione: ‘Il Cristianesimo così com’è’ e ‘Sorpreso dalla gioia’. Un altro importante lavoro dell’autore irlandese è il romanzo ‘Le lettere di Berlicche’, incentrato sulla bizzarra corrispondenza tra un funzionario di satana e il nipote, apprendista diavolo custode. Muore a Oxford il 22 novembre 1963.
Ed a 60 anni dalla sua morte Paolo Gulisano, medico e scrittore, scrive il libro ‘Clive Staples Lewis. Nella terra delle ombre’ con la prefazione del prof. Giuseppe Pezzini, docente di filologia all’Università di Oxford: “Lewis fu pensatore e apologeta del cristianesimo, ma mai veramente dotato (o preoccupato) del rigore e la precisione del filosofo e teologo. Autore di molti e diversi libri (quasi 100, tra romanzi, saggi e raccolte di poesie), alcuni dei quali ebbero grande successo di pubblico (le cronache di Narnia soprattutto), ma che furono spesso scritti di getto, e dunque non privi di imperfezioni e superficialità, sia di forma che contenuto, come lo stesso Tolkien gli rimproverò più volte”
Perché ‘Nella terra delle ombre’?
“In una delle sue opere più importanti, ‘Le Cronache di Narnia’, dove le vicende si svolgono in un mondo fantastico parallelo al nostro, chiamato Narnia, la nostra terra è chiamata Shadowlands, ovvero la Terra delle ombre. Il motivo è che noi abbiamo una visione parziale, appannata. Come diceva san Paolo, ‘vediamo come in uno specchio’. Un nome che Lewis non scelse a caso: la sua vicenda personale fu quella di un uomo alla ricerca della Verità, tra le luci e le ombre della nostra condizione umana”.
In quale modo, attraverso il genere fantastico, raccontava il Cristianesimo?
“Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo”.
Perché volle mettersi alla ricerca della Gioia?
“Prima della sua conversione, quando ancora si dichiarava ‘un militante ateo’, ebbe modo di leggere un saggio di Chesterton, Ortodossia, dove il grande scrittore inglese affermava che ‘lo straordinario segreto del Cristianesimo è la gioia’. Questa definizione lo colpì molto, e da quel momento si mise alla ricerca di questa gioia, lasciandosene stupire attraverso incontri e scoperte’.
Per quale motivo ha voluto descrivere l’infermo ed il paradiso ne ‘Il grande divorzio’?
“Lewis si era accorto che anche tra i cristiani nella modernità si parla sempre meno delle realtà ultime, il Giudizio, il Paradiso, l’Inferno. Le Chiese si appiattiscono su una dimensione orizzontale, di impegno caritatevole e sociale, ma dimenticando quella verticale, per cui la vita deve essere prima di tutto cammino verso Dio. Lewis volle ricordare questa verità, e lo fece a modo suo, attraverso una narrazione fantastica e simbolica, anche se molto spesso la sua difesa del cristianesimo si faceva più esplicita, come nei suoi saggi apologetici”.
Per quale motivo usava il registro ironico per parlare del diavolo, come nelle ‘Lettere di Berlicche’?
“L’umorismo con cui Lewis affrontò il tema del male, della tentazione, del peccato, rappresenta un’affascinante metodologia: provare a calarsi nella mentalità diabolica per comprenderne i meccanismi per rovinare le anime richiedeva una certa robustezza spirituale, che Lewis possedeva, e anche una serenità interiore che si alimentava di buon umore e un pizzico di ironia, che mostra che bisogna assolutamente non avere paura del demonio, perché sappiamo che le porte degli inferi non prevarranno, ma neppure lo si deve sottovalutare. Bisogna dargli il giusto peso, e in questa considerazione è importante anche il senso dell’umorismo”.
Quale rapporto aveva con Tolkien?
“Un rapporto di straordinaria amicizia. Inizialmente, quando si erano conosciuti a Oxford condividevano interessi e passioni culturali, ma la religione li divideva. Tolkien infatti era cattolico. Poi l’autore del ‘Signore degli Anelli’ gli trasmise la sua profonda fede, Lewis si convertì, ed iniziò tra i due un lungo, profondo sodalizio umano e artistico. Non era solo un rapporto intellettuale, anche se le loro opere letterarie videro la luce dopo che tra di loro ne avevano parlato, si erano confrontati, magari anche discusso. Fu un’amicizia vera, autentica, profonda, che li gratificò reciprocamente, e che si era estesa anche ad altri amici e conoscenti. Per loro l’amicizia fu guardare insieme nella stessa direzione”.
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