Città del Vaticano , 13 December, 2023 / 5:00 PM
L’ultimo colpo di scena è una lettera firmata dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e indirizzata al Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, che ribadisce la volontà di portare avanti il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e di punire eventuali comportamenti criminali. Il testo è irrituale, come appare irrituale molto del processo, che si avvia alla conclusione. Perché il 16 dicembre, dopo l’ultima, breve, controreplica della difesa (l’avvocato Filippo Dinacci, che non aveva potuto intervenire per COVID) i giudici del Tribunale vaticano si riuniranno in camera di consiglio e definiranno il dispositivo della sentenza.
Nel pomeriggio di sabato 16 dicembre, dunque, si saprà se il cardinale Becciu e altri nove imputati saranno condannati o assolti. Si saprà se le accuse rimarranno quelle che sono o verranno derubricate a reati minori. Si saprà, soprattutto, se il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, avrà abbracciato la tesi dell’accusa, indebolitasi fortemente nel corso del processo, o se invece avrà fatto proprie le ragioni delle difese.
In realtà, il tema del processo va oltre gli imputati e i capi di accusa. Il procedimento ha fortemente indebolito l’istituzione vaticana, e in particolare la Segreteria di Stato che si considera parte lesa in questo momento, ma che in realtà è stata più danneggiata dall’interno dell’istituzione che non dal comportamento dei presunti affaristi.
Quattro rescripta di Papa Francesco sono intervenuti nel procedimento, dando poteri praticamente illimitati al promotore di giustizia, mettendo anche a rischio la stabilità e l’equilibrio del sistema giudiziale vaticano. E la credibilità internazionale della Santa Sede ha vacillato, al di là della narrativa (molto italiana, per la verità) che rappresenta una Santa Sede sempre più trasparente e amata dai valutatori europei.
In realtà, MONEYVAL ha censurato la situazione nel suo ultimo rapporto sulla Santa Sede, e non era stata tenera con i giudici vaticani nemmeno in precedenza, mentre il Gruppo Egmont, che mette insieme le unità di intelligence finanziaria di tutto il mondo, aveva disconnesso la Santa Sede dal circuito sicuro di comunicazione interna perché, con il raid nella sede dell’Autorità di Informazione Finanziaria, non c’era più sicurezza di autonomia e di messa in sicurezza di dati confidenziali.
Ma il processo appare essere anche qualcosa di più, ovvero una sorta di “colpo di Stato”, o di restaurazione. Perché con la legge antiriciclaggio del 2012 la Santa Sede aveva preso una strada internazionale, tagliando i rami che la legavano a doppio filo all’Italia e guardando piuttosto al mondo e agli standard internazionali.
Ma oggi tutto parla di nuovo italiano in Vaticano, dai vertici dell’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria, che si è rifatta il trucco con un cambio di nome, ai promotori di giustizia, che hanno tutti altri incarichi in Italia e che ora, con l’ultima modifica alla normativa, hanno ottenuto di poter essere tutti part time. Nessuno, insomma, si dedica al Vaticano al cento per cento, e questo contro tutte le raccomandazioni internazionali. In fondo, sarebbe un “colpo di Stato” se ci fosse uno Stato ben strutturato. La lettera di Parolin che legittima il lavoro del tribunale e del promotore di giustizia, può essere, alla fine, la certificazione di una debolezza strutturale.
Fatte queste premesse, vale la pena prima di tutto riavvolgere il nastro per comprendere di cosa tratta il processo.
I tre filoni di indagine
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
La lettera del Cardinale Parolin
È alla fine dell’udienza dell’11 dicembre, che ospita le repliche del promotore di Giustizia e delle parti civili alle arringhe dei difensori, che l’ufficio del promotore di giustizia presenta una “Dichiarazione di Sua Eminenza il Segretario di Stato a conferma della richiesta e della manifestazione delle volontà di perseguire i reati accertati e contestati”. La dichiarazione è una lettera, sollecitata dallo stesso promotore, e datata 6 novembre, in cui, dopo una breve premessa, il Cardinale Parolin fa sapere che “anche facendo seguito alla posizione già assunta, confermo l’istanza di perseguire e punire tutti i reati su cui si agisce su istanza di parte e di cui la Segreteria di Stato è considerata parte offesa”.
La lettera è particolarmente irrituale. È come se un presidente del Consiglio inviasse al procuratore capo una lettera da leggere nella settimana in cui c’è il pronunciamento della sentenza, fatto che sarebbe considerato una pressione indebita. Non viene considerato tale in Vaticano, dove comunque la volontà del Papa è sempre considerata sovrana.
E la lettera di Parolin si sovrappone ad un’altra lettera, questa volta inviata dal Papa agli officiali della Segreteria per l’Economia, e pubblicata sul sito della SPE. Nella lettera, che fa seguito ad un incontro del Papa con gli officiali del dicastero economico del 13 novembre, Papa Francesco chiede lealtà ai principi della Chiesa, nota che c’è un deficit importante ogni anno, e chiede a ciascuno di “essere pronto a rinunciare al proprio interesse particolare”, dando anche una idea di quello che si aspetta dagli investimenti.
Una lettera che suona come un monito indiretto, pubblicata ora, considerando che la natura degli investimenti della Santa Sede e della loro presunta natura speculativa sono stati oggetto di scrutinio e anche di accuse da parte del promotore di Giustizia.
La replica del Promotore di Giustizia
Il Promotore di Giustizia ha visto, nel corso del dibattimento, la sua tesi accusatoria smontata in ogni parte. Ci sta, in un dibattimento. Colpisce, però, come il lavoro delle difese abbia concorso a operare un vero e proprio cambio di narrativa nel processo. Tutte le difese hanno lamentato una decontestualizzazione dei fatti contestati, una vaghezza dei capi di accusa, una interpretazione del diritto ad hoc per alcune circostanze.
Le difese hanno anche messo in luce che il processo aveva diverse irregolarità, a partire dai rescripta del Papa che davano al promotore speciali poteri di indagine, anche di fare intercettazioni, e che sono però circoscritti solo a questo processo.
Ma Diddi, nella sua replica, sottolinea che i rescripta servivano a disciplinare qualcosa che altrimenti non sarebbe stato disciplinato, come le intercettazioni, e arriva a dire che i provvedimenti di urgenza o retroattivi hanno la loro ragione di essere, rievocando la decisione straordinaria del maxi processo anti Mafia di dare per letti tutti gli atti per evitare l’ostruzionismo dei difensori.
Lasciando da parte l’ardito paragone tra un processo di Mafia e un processo penale che riguarda questioni di diritto commerciale, la replica di Diddi lamenta soprattutto un pregiudizio nei suoi confronti, sottolinea che le difese non hanno considerato fatti emersi a processo e invece attaccano il promotore per lo stesso motivo, ribalta le accuse andando a rileggere memorie e chat che dovrebbero andare a corroborare la sua tesi accusatoria.
Non solo. Monsignor Alberto Perlasca, per nove anni capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, non può essere considerato un “super testimone”, e anzi l’incidenza della sua testimonianza non è stata così alta, spiega Diddi, perché andava considerato anche il suo stato emotivo.
La testimonianza, e il memoriale, di Perlasca sono stati però un perno che ha permesso al limite di costruire la narrativa dell’accusa, perno poi crollato nel momento in cui è venuto fuori che lo stesso monsignore era influenzato da Genevieve Ciferri, la quale a sua volta riceveva i suggerimenti di Francesca Immacolata Chaouqui, già nota alle cronache vaticane per essere stata prima commissario della COSEA e poi per essere stata processata nell’ambito del cosiddetto Vatileaks 2.
Chaouqui e Ciferri sono state sentite in tribunale, ma anche la loro testimonianza è “pari a zero”, dice il promotore, che di fatto taglia dal suo impianto accusatorio ogni situazione o circostanza che potrebbe essere controversa.
(La storia continua sotto)
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Il promotore si sofferma anche sulla posizione di Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato anche lui a processo, il quale ha più volte ribadito la sua posizione di estraneità ai fatti e di totale subordinazione ai superiori. Tirabassi era minutante, e il minutante, spiega Diddi, è “il più alto grado amministrativo”, cosa sostanzialmente non corretta perché comunque è sempre almeno subordinato ad un capo ufficio.
Diddi ha lamentato le “contumelie aggressive nei confronti del promotore di giustizia”, cosa che ha dimostrato che “in molti casi le difese non hanno avuto altri argomenti che attaccarci”.
Riguardo il cardinale Becciu, Diddi ha detto che il cardinale è entrato nell’indagine perché “proprio lui ha fatto di tutto per entrare nel processo difendendo l’operazione di Londra”, arrivando a orchestrare, tra il 2019 e l’inizio del 2020, una vera e propria “campagna stampa nei confronti dell’ufficio del promotore che avrebbe preso un abbaglio sulla indagine”. Probabilmente è anche per questo che Diddi ha deciso di chiedere per Becciu una pena al massimo della forchetta, perché non ha “mai chiesto perdono”, ma anzi si è difeso durante il dibattimento.
Per quanto riguarda la vicenda Sardegna, ha detto Diddi, “la difesa non si è confrontata con gli esiti dell’indagine della Guardia di Finanza di Oristano” sulla diocesi di Ozieri e la cooperativa SPES, mentre sulla questione di Cecilia Marogna, Diddi si chiede “perché Becciu non ha fatto denuncia”, e soprattutto dice che il Papa di lei non sapeva nulla, ma sapeva di un bonifico alla società inglese Inkerman.
Le richieste dello IOR
Roberto Lipari, avvocato dell’Istituto delle Opere di Religione che è costituito parte civile, ha sottolineato che lo IOR “ha subito un danno autonomo”, e ribadito che chiede un risarcimento dei fondi IOR destinati al Santo Padre e finiti alla Segreteria di Stato, perché siano poi destinati alle attività del Papa (e ovviamente amministrati dallo IOR, che secondo la costituzione apostolica Praedicate Evangelium ha ora tutta la gestione amministrativa del patrimonio).
La questione però è dirimente, perché non ci può essere distinzione tra Papa e Santa Sede, né tra Papa e Segreteria di Stato. In particolare, il canone 361 del Codice di Diritto Canonico stabilisce che Santo Padre, Sede Apostolica, Santa Sede, Segreteria di Stato e anche Curia sono sinonimi. Il contributo che lo IOR destinava alla Santa Sede, che non aveva vincoli di destinazione, era de facto destinato al Santo Padre. Sarà da capire se, in punta di diritto canonico, la richiesta risarcitoria può davvero essere esercitata.
In realtà, tutto il processo nasce da una denuncia del direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì, a seguito della richiesta di prestito della Segreteria di Stato per far fronte al mutuo che gravava sull’immobile di Londra. Vale la pena ricordare che lo IOR aveva prima accettato di erogare il prestito, sebbene dopo due mesi in cui aveva chiesto ulteriori documentazioni alla Segreteria di Stato, per poi fare improvvisamente marcia indietro tre giorni dopo l’assenso.
Colpisce, in questa vicenda, che lo IOR, organo di Stato, rifiuti una collaborazione con il governo che l’ente vigilante, cioè l’AIF, aveva tra l’altro segnalato come possibile e nei limiti del perimetro delle autorizzazioni dello IOR.
Dal punto di vista IOR, però, l’assenso dell’AIF al prestito alla Segreteria di Stato è addirittura una pressione indebita, anzi l’allora direttore Di Ruzza “sapeva bene dei problemi di Londra” eppure invita a concedere il prestito, così come l’ex presidente René Bruelhart.
La Segreteria di Stato
Paola Severino, legale di parte civile della Segreteria di Stato, ha fatto riferimento anche lei al finanziamento. Lo ha definito una “dolorosa vicenda” dove i primi ad essere ingannati sono stati il cardinale Parolin e l’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato. Ma fu proprio il sostituto a chiedere il prestito, a sollecitarlo, e anche in sede di dibattimento ha ribadito il suo disappunto per il comportamento dello IOR, che con la sua dilazione e poi rifiuto di prestito ha portato la Santa Sede a perdere diversi milioni di euro.
Colpisce che la Severino ha aperto per la prima volta di una possibile “riqualificazione” dei capi di imputazione, una apertura importante, che testimonia come anche le parti civili abbiano cominciato a vedere il processo sotto un’altra luce.
La parte civile APSA
Giovanni Maria Flick, legale di parte civile per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, ha ribadito che le richieste risarcitorie dell’APSA non possono essere considerate un duplicato di quelle della Segreteria di Stato vaticana, che era titolare dell’amministrazione dei fondi al tempo dei fatti, perché la Segreteria di Stato sta chiedendo un risarcimento per danno di immagine, mentre l’APSA chiede il danno patrimoniale.
La parte civile l’ASIF
L’Autorità per la Supervisione e l’Informazione Finanziaria, con il suo legale Anita Titomanlio, ha invece replicato ribadendo i principi di autonomia dell’autorità, che sarebbero stati messi in discussione dal comportamento degli ex vertici. In pratica, secondo l’ASIF, Bruelhart e Di Ruzza avrebbero sbagliato a collaborare con la Segreteria di Stato fornendo una consulenza per uscire dalla difficile situazione di Londra, e avrebbero dovuto subito segnalare la situazione al promotore di giustizia. La tesi dell’ASIF è che la collaborazione con la Segreteria di Stato mina l’indipendenza della stessa autorità.
È una tesi tutta da valutare, perché l’autorità ha autonomia, ma è pur sempre un organo chiamato a collaborare per il bene superiore della Santa Sede, ed è dunque chiamata a dare un supporto al governo, cioè la Segreteria di Stato, ed è anche per questo che Bruelhart, divenuto presidente dell’AIF (incarico al tempo non operativo) aveva assunto anche il ruolo di consulente della Segreteria di Stato.
Ma, nella tesi di Titomanlio, l’indipendenza dell’AIF si sostanziava solo in una collaborazione con la magistratura, in una sorta di sudditanza al potere giudiziario. E questo non considerando il fatto che, guardando le carte, l’AIF aveva seguito tutte le procedure, attivato tutte le UIF coinvolte, scambiato dati di intelligence. Non aveva disseminato un rapporto all’ufficio del promotore perché le indagini erano in corso, e tra l’altro il raid improvviso che ha poi decapitato l’autorità ha bloccato il flusso delle indagini. Sono tutti temi ampiamente sviluppati nell’arringa degli avvocati dell’AIF, che tra l’altro ha operato un cambio di narrativa stringente.
La risposta degli avvocati di Bruelhart e Di Ruzza
Nelle controrepliche del 12 dicembre, Ugo Dinacci, avvocato di René Bruelhart, ha notato la difficoltà a definire i capi di accusa, anche perché nel decreto di sequestro originario si parla semplicemente di “ruolo non chiaro dell’AIF”. Dinacci ha sottolineato l’importanza del principio di mutua collaborazione e interdipendenza organica dei dicasteri della Santa Sede. A Titomanlio, che affermava che la sospensione del Gruppo Egmont sarebbe stata una forma di tutela, Dinacci ricorda che l’AIF è stato riammesso al gruppo solo dopo aver stipulato un apposito protocollo di intesa con il promotore di Giustizia. Riguardo la posizione di Bruelhart come advisor della Segreteria di Stato, dato che c’era un contratto firmato dopo la nomina di Bruelhart a presidente dell’AIF, allora, se questo non poteva essere fatto, “o la Segreteria di Stato o il Santo Padre hanno posto Bruelhart in una situazione di non conformità”.
Dinacci ha poi sottolineato che “le quattro ipotesi di abuso di ufficio contestate a Bruelhart sono accomunate dal medesimo dolo specifico che consiste nel fine di far ottenere a Torzi un indebito vantaggio. Ma perché ci sia questo tipo di dolo è “indispensabile individuare e provare che cosa in concreto si è prefisso la gente con la sua condotta”, e “l’ipotesi che Bruelhart abbia agito su finalità per far conseguire a Torzi un illecito vantaggio non trova alcun appiglio documentale né in dichiarazioni che sono nel fascicolo del dibattimento”.
Angela Valente, avvocato di Di Ruzza, ha sottolineato che “non ci sono profili di censura rispetto all’operato dei vertici dell’AIF che hanno adempiuto alla normativa di settore”, e tra l’altro sono loro che “hanno introdotto la normativa antiriciclaggio, che hanno introdotto normativa prudenziale, e sono connotati da serietà professionale da essere chiamati dal Santo Padre a risolvere una questione e sono state identificate persone di fiducia”. E no, ha sottolineato, l’AIF non ha imposto allo IOR una scelta, ma anzi piuttosto “il limite di Di Ruzza e Bruelhart è stato di far comprendere agli altri che stavano travalicando i loro doveri”.
Lo IOR ha infatti voluto fare una adeguata verifica rafforzata, cosa tra l’altro accettata dalla Segreteria di Stato, ma il Regolamento 4 dell’Autorità, cui lo IOR deve sottostare, dice all’articolo 21 che la verifica va semplificata quando un ente richiedente è un ente della Santa Sede e quando si tratta di soggetti e utenti garantiti.
L’AIF – ha spiegato l’avvocato . “nella ricostruzione fornita sarebbe stato opaco e sfuggente. Cosa avrebbe dovuto fare? Gli hanno chiesto se il prestito era fattibile, hanno replicato che il prestito era fattibile, era sostenibile, rientrava nel perimetro autorizzativo e aveva per oggetto di estinguere mutuo onerosissimo garantito dalla Segreteria di Stato”, e tra l’altro mette anche in luce che “l’operazione è anche economicamente vantaggiosa”.
Insomma, si è cercato di “fare accertamenti non dovuti da parte di ente vigilato”, ma lo IOR era chiamato solo a dire se “poteva o non poteva fare operazione”. Insomma, “una applicazione irrituale della normativa non è stata posta in essere da Di Ruzza, ma da altri in questo contesto”.
La difesa Crasso
Luigi Pannella, avvocato di Enrico Crasso, che per conto di Credit Suisse e poi di altre società aveva gestito i fondi della Santa Sede, ha lamentato che il promotore di giustizia “ha cercato di piegare la realtà alla sua idea investigativa, cancellando e trasformando le lettere di Parolin e Bertone a Credit Suisse Age nel 2016, che chiarivano che sulle somme depositate nella banca svizzera non c’era alcun vincolo di destinazione, e quindi il sostituto della Segreteria di Stato poteva disporne sempre come voleva”.
Tra l’altro, Crasso è trattato come “un pubblico ufficiale di fatto” della Santa Sede, ma non ha mai lavorato per la Santa Sede, che invece si appoggiava alle istituzioni finanziarie come Credit Suisse.
La difesa Tirabassi
Cataldo Intrieri, legale di Tirabassi, ha parlato di “disperazione intellettuale” del promotore di Giustizia, e ne ha messo in luce le contraddizioni. A luglio, Diddi aveva detto che né Crasso né Tirabassi avevano partecipato all’ideazione della presunta truffa alla Segreteria di Stato che ha portato Torzi ad avere il controllo delle sole mille azioni con diritto di voto che controllavano il palazzo di Londra. Nella replica, invece, Diddi ha detto, secondo Intrieri, “che siccome lo statuto del fondo Gutt era stato mandato ad Andrea Crasso (figlio di Enrico, n.d.r) il 23 novembre 2018 lo ha sicuramente visto anche Tirabassi, ma a lui arriva il 27 novembre attraverso una mail di Nicola Squillace (legale di Torzi, anche lui imputato)”. In un processo “di capri espiatori, il più capro è il mio cliente – ha proseguito il legale – lo scemo di turno scemo di turno che viene mandato a Londra a firmare da monsignor Alberto Perlasca (il responsabile dell’Ufficio amministrativo, testimone non imputato) che era responsabile dell’accordo con il broker Raffaele Mincione, e sapeva benissimo il prezzo dell’uscita di Mincione, 40 milioni di euro” .
Gli avvocati Massimo Bassi e Cataldo Intrieri hanno duramente criticato “ la pasticciata replica del promotore” che ha contraddetto la propria iniziale impostazione. I due hanno anche sottolineato che il promotore non ha replicato sulla denuncia del grave scontro istituzionale tra IOR e Segreteria di Stato che si è concluso con il ridimensionamento della segreteria in favore dell’ente finanziario
La difesa Squillace
Per l’avvocato Nicola Squillace ha parlato il difensore Lorenzo Bertacco. Squillace è socio dello studio Libonato-Jaeger, che ha assistito il finanziere Torzi e la società Gutt, ma anche la Segreteria di Stato. Già nella sua arringa, l’avvocato Lorenzo Bertacco ha sottolineato che nella trattativa sul palazzo in Sloane Avenue a Londra, con il broker Mincione e per l’ingresso della Santa Sede nella società Gutt, “ha fatto solo il suo lavoro di avvocato”. Nella sua replica, Bertacco ha ribadito che quando la Segreteria di Stato ha pagato 15 milioni di euro a Torzi per recuperare il controllo del palazzo di Londra, “non c’è stata truffa, perché la Segreteria non era in condizione di errore. Sapeva benissimo cosa faceva”.
La difesa Becciu
Fabio Viglione, avvocato del Cardinale Angelo Becciu, ha notato che il cardinale ha subito, piuttosto che compiuto, una “campagna stampa fortemente denigratoria”, ha affermato che non ci sono “elementi specifici contro le nostre osservazioni, ma solo caricature”, ha ribadito che l’accusa al cardinale viene partorita dall’interrogatorio di Perlasca del 31 agosto 2020, che da indagato diventa testimone.
L’avvocato ha ribadito che il famoso “conto promiscuo” della diocesi di Ozieri era noto a tutti e su cui è stato versato il contributo della Segreteria di Stato, e dunque non c’erano illeciti. Si parla di peculato perché la SPES, braccio operativo della Caritas, era diretta dal fratello del Cardinale Antonino Becciu. “Se il cardinale voleva dare soldi al fratello – ha notato l’avvocato Viglione – li poteva versare direttamente sul suo conto, ma non ce n’è traccia”. Come non c’è traccia di soldi inviati direttamente alla SPES, mentre si è “arrivati a dire che l’amministratore della SPES era lo stesso cardinale.
Maria Concetta Marzo, anche lei difensore del Cardinale Becciu, ha ribadito che non c’era vincolo di destinazione per i fondi della Segreteria di Stato, e questo non era nemmeno stato segnalato da Perlasca, e messo in luce l’illogicità del fatto che il cardinale avrebbe distratto fondi a favore della Marogna quando non era più sostituto – il bonifico per la liberazione della suora rapita in Mali viene fatto quando sostituto è Pena Parra – quando “avrebbe dovuto farlo quando era sostituto, e non doveva chiedere autorizzazioni al suo successore”.
La difesa Torzi
Marco Franco, difensore di Gianluigi Torzi, ha ricordato ancora una volta come il suo assistito sia stato tratto in arresto quando era andato in Vaticano per farsi interrogare, sottolineando che si è trattato di una “palese ingiustizia – ha dichiarato – senza nessun controllo giurisdizionale previsto dal sistema giudiziario vaticano”.
Inoltre, l’avvocato ha notato che la prova dell’estorsione, secondo l’accusa, sarebbe una nota di Tirabassi, che viene anche “considerato complice dell’estortore”. Inoltre, secondo l’avvocato
“non ci sono dubbi sul fatto che la Segreteria di Stato aveva promesso a Torzi di fargli gestire il palazzo di Londra”.
L’avvocato Matteo Santamaria, da parte sua, ha voluto ribadire che Torzi non si è appropriato delle mille azioni, ma le aveva, e che dunque poteva condurre il negoziato per la cessione.
La difesa Carlino
Salvino Mondello, legale di monsignor Mauro Carlino, ha parlato di “repliche evanescenti”. Carlino è accusato di aver concorso all’estorsione di Torzi. Già segretario del sostituto Becciu, e poi dell’arcivescovo Peña Parra, Carlino fu destinato da quest’ultimo a risolvere la questione del palazzo di Londra. Dall’interrogatorio a Carlino è venuto fuori che fu lui ad ottenere uno “sconto” di cinque milioni, dando a Torzi 15 milioni invece dei 20 iniziali.
Mondello ha sottolineato che Carlino non ha avuto “alcun comportamento casuale”, né “è mai andato a cena con Torzi, ed è stato anche lui vittima del reato di estorsione.
La difesa Mincione
Giandomenico Caiazza, legale del broker Mincione, ha sottolineato come “sia venuta meno la parabola dei mercanti nel tempio e l’assioma accusatorio della mancanza di precedenti di investimenti di questo tipo”. Secondo i legali, il finanziamento proposto da Mincione – il credit Lombard, un prestito con una garanzia – era già operato dalla Segreteria di Stato, e che “se un investitore come la Segreteria di Stato vuole investire su un fondo con diritto estero e lussemburghese, come l’Athena di Mincione, “deve conoscere quel diritto. La profilatura del cliente è stata fatta da Credit Suisse, che scrive alla Deutsche Bank, e dà garanzie sul cliente. E Credit Suisse garantisce che i fondi provengono da fonti legittime. Cosa doveva verificare ancora Mincione?”.
Caiazza si è chiesto infine “come sia possibile pensare che un soggetto che gestisce un fondo di diritto lussemburghese, super controllato, che opera secondo clausole contrattuali, possa porre in essere una condotta illecita”.
L’altro avvocato del team di Mincione, Andrea Zappalà, ha di nuovo mostrato che la Segreteria di Stato aveva già investito su prodotti complessi e rischiosi, notando come la Segreteria di Stato non aveva solo fondi bilanciati, ma anche “fondi hedge, immobiliari e anche off shore”.
Verso la sentenza
Il processo si concluderà il 16 dicembre, all’udienza numero 86. È stato definito il “processo del secolo” e di certo è il processo più lungo che si sia trovato ad affrontare lo Stato di Città del Vaticano. Ma è anche un processo che è stato caratterizzato da varie anomalie, e che ha messo a rischio la stessa credibilità della Santa Sede a livello internazionale.
Sarà da vedere in che modo potranno essere configurati i capi di accusa. Il Promotore di Giustizia, Diddi, ha risposto sulle contestazioni di vaghezza dicendo che negli Stati Uniti più che un capo di accusa di presenta la descrizione di un fatto occorso. È anche vero che in un processo penale si devono provare fatti, e non ci possono essere certezze morali o speculazioni.
In più, varrebbe la pena soffermarsi sul fatto che alcune pratiche contestate durante il processo, come anche una totale autonomia di gestione dell’ufficio del sostituto, erano prassi comuni. Non si possono giudicare comportamenti del passato attraverso l’ermeneutica attuale o le nuove normative.
Di fatto, che ci fosse bisogno di una riforma o di un aggiustamento è possibile. Ma che questa riforma debba passare per una purificazione processuale può lasciare perplessi.
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