Città del Vaticano , 06 November, 2023 / 9:00 AM
Israeliani e palestinesi sono “due popoli che devono vivere insieme. Con quella soluzione saggia dei due popoli e due Stati. Gli accordi di Oslo: due Stati ben limitati e Gerusalemme con uno status speciale”. Lo ha ribadito solo pochi giorni fa Papa Francesco nell’intervista concessa al TG1 confermando di fatto la linea vaticana sulla Terra Santa dai tempi della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, regnava allora Papa Pio XII.
Nell’enciclica In multiplicibus curis del 1948 Pio XII rilanciava il carattere internazionale per la Città Santa di Gerusalemme: “Siamo pieni di fiducia che queste suppliche e queste aspirazioni indice del valore che ai luoghi santi annette così gran parte della famiglia umana, rafforzino negli alti consessi, nei quali si discutono i problemi della pace, la persuasione dell'opportunità di dare a Gerusalemme e dintorni, ove si trovano tanti e così preziosi ricordi della vita e della morte del Salvatore, un carattere internazionale che, nelle presenti circostanze, sembra meglio garantire la tutela dei santuari. Così pure occorrerà assicurare con garanzie internazionali sia il libero accesso ai luoghi santi disseminati nella Palestina, sia la libertà di culto e il rispetto dei costumi e delle tradizioni religiose”.
L’anno successivo – 1949 – nell’enciclica Redemptoris nostris – Pio XII tornava a chiedere a ciascuno di “adoperarsi con ogni mezzo legale, affinché i loro governanti e tutti coloro ai quali spetta la decisione di così importante problema si persuadano a dare alla città santa e ai suoi dintorni una conveniente situazione giuridica, la cui stabilità, nelle presenti circostanze, può essere assicurata e garantita soltanto da una comune intesa delle nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui. Ma è inoltre necessario provvedere alla tutela di tutti i luoghi santi, che si trovano non solo in Gerusalemme e nelle sue vicinanze, ma anche in altre città e villaggi della Palestina”.
Alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni del 1967 Paolo VI scriveva il 5 giugno un messaggio al Segretario Generale dell’ONU U Thant: “Siamo profondamente addolorati e preoccupati per gli sviluppi degli avvenimenti in Medio Oriente e mentre preghiamo affinché la misericordia divina preservi quell'area e il mondo dalla sofferenza e dalla distruzione Vi chiediamo di compiere ogni sforzo affinché l'Organizzazione delle Nazioni Unite riesca a fermare il conflitto. Esprimiamo in nome della cristianità il fervido auspicio che, nella malaugurata eventualità, nella quale confidiamo fermamente non si verifichi mai, che la situazione possa peggiorare, Gerusalemme possa, per il suo carattere peculiarmente sacro e santo, essere dichiarata città aperta e inviolabile”. E due giorni dopo nell’udienza generale ripeteva l’appello per “l’incolumità dei Luoghi Santi; è infatti di sommo interesse per tutti i discendenti della stirpe spirituale di Abramo, ebrei, musulmani. cristiani, che Gerusalemme sia dichiarata città aperta, e, sgombra di ogni operazione militare, rimanga immune dalle causalità belliche, che già la colpiscono e ancor più tanto facilmente la minacciano. Noi ne facciamo implorante appello in nome di tutta la cristianità per ciò trepidante, anzi Ci facciamo a tal fine interpreti di tutta l’umanità civile presso i Governanti delle Nazioni in conflitto e presso i Capi militari degli eserciti combattenti: sia risparmiato a Gerusalemme il regime di guerra, e resti la santa città rifugio agli inermi ed ai feriti, simbolo per tutti di speranza e di pace”.
Nel 1984 con la Lettera Apostolica Redemptionis anno, anche Giovanni Paolo II tornava sulla questione di Gerusalemme e della Terra Santa ribadendo la linea della Santa Sede. “I romani pontefici, soprattutto in questo secolo, hanno seguito sempre con trepidante sollecitudine gli avvenimenti dolorosi nei quali Gerusalemme è stata coinvolta per molti decenni e hanno prestato vigilante attenzione ai pronunciamenti delle istituzioni internazionali che si sono interessate della Città santa. In numerose occasioni, la Santa Sede ha invitato alla riflessione e ha esortato a trovare una soluzione adeguata alla complessa e delicata questione. Lo ha fatto perché profondamente preoccupata della pace tra i popoli, non meno che per motivi spirituali, storici, culturali, di natura eminentemente religiosa. L'umanità intera, e in primo luogo i popoli e le nazioni, che hanno in Gerusalemme i loro fratelli di fede, cristiani, ebrei e musulmani, hanno motivo di sentirsi in causa e di fare il possibile per preservare il carattere sacro, unico e irripetibile della città. Non solo i monumenti o i luoghi santi, ma tutto l'insieme della Gerusalemme storica e l'esistenza delle comunità religiose, la loro condizione, il loro avvenire non possono non essere oggetto di interesse e di sollecitudine da parte di tutti. In effetti, è doveroso che si trovi, con buona volontà e lungimiranza, un modo concreto e giusto con cui i diversi interessi e aspirazioni siano composti in forma armonica e stabile e siano tutelati in maniera adeguata ed efficace da uno speciale statuto internazionalmente garantito, così che una parta o l'altra non possa rimetterlo in discrimine. Sento anche il pressante dovere, di fronte alle comunità cristiane, a coloro che professano la fede nel Dio unico e che sono impegnati nella difesa dei valori fondamentali dell'uomo, di ripetere che la questione di Gerusalemme è fondamentale per la giusta pace nel Medio Oriente. E' mia convinzione che l'identità religiosa della città e in particolare la comune tradizione di fede monoteistica possono appianare la via a promuovere l'armonia tra tutti quelli che variamente sentono la Città santa come propria”.
Giovanni Paolo II affrontava poi la questione dei “due popoli e due stati”. “E' naturale, in questo contesto, ricordare – scriveva il Papa - che nella regione due popoli, l'israeliano e il palestinese, sono da decenni contrapposti in un antagonismo che appare irriducibile. La Chiesa, che guarda a Cristo redentore e ne ravvisa l'immagine nel volto di ogni uomo, invoca pace e riconciliazione per i popoli della terra che fu sua. Per il popolo ebraico che vive nello Stato di Israele e che in quella terra conserva così preziose testimonianze della sua storia e della sua fede, dobbiamo invocare la desiderata sicurezza e la giusta tranquillità che è prerogativa di ogni nazione e condizione di vita e di progresso per ogni società. Il popolo palestinese, che in quella terra affonda le sue radici storiche e da decenni vive disperso, ha il diritto naturale, per giustizia, di ritrovare una patria e di poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli della regione”.
Benedetto XVI, al suo arrivo in Israele nel maggio 2009, confermava la linea espressa dal suo predecessore. “Durante la mia permanenza a Gerusalemme, avrò anche il piacere di incontrare molti distinti leader religiosi di questo paese. Una cosa che le tre grandi religioni monoteistiche hanno in comune è una speciale venerazione per questa Città Santa. È mia fervida speranza che tutti i pellegrini ai luoghi santi abbiano la possibilità di accedervi liberamente e senza restrizioni, di prendere parte a cerimonie religiose e di promuovere il degno mantenimento degli edifici di culto posti nei siti sacri. Anche se il nome Gerusalemme significa “città della pace”, è del tutto evidente che per decenni la pace ha tragicamente eluso gli abitanti di questa terra santa. Gli occhi del mondo sono sui popoli di questa regione, mentre essi lottano per giungere ad una soluzione giusta e duratura dei conflitti che hanno causato tante sofferenze. Le speranze di innumerevoli uomini, donne e bambini per un futuro più sicuro e più stabile dipendono dall’esito dei negoziati di pace fra Israeliani e Palestinesi. In unione con tutti gli uomini di buona volontà, supplico quanti sono investiti di responsabilità ad esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta alle enormi difficoltà, così che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti”.
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