Budapest, 28 April, 2023 / 1:20 AM
Da Budapest, dove è atterrato nella mattina per un viaggio di tre giorni, Papa Francesco lancia un messaggio al cuore dell’Europa, chiede di ricostruirla intorno ai valori comuni e di ritrovarne l’anima, e lo fa nella capitale di un Paese che classifica come “città di ponti”, ma anche “città di storia” e “città di santi”. E mette in luce che il rischio, dietro l’angolo, è quello della colonizzazione ideologica, che porta con sé i nuovi diritti, a partire dalla rivendicazione del diritto all’aborto e della diffusione della cultura gender.
Quello di Papa Francesco si caratterizza subito non solo come un viaggio in un Paese che si trova al centro dell’Europa, ma come un messaggio all’Europa stessa. Prima di lui, Katalin Novak, presidente, ha pronunciato un discorso scritto di suo pugno in cui, ai tradizionali valori della pace, cercata a tutti i costi in Ucraina senza voler mandare gli uomini al fronte e della difesa della famiglia, unita alla valorizzazione della donna, spicca la proposta di un nuovo tipo di ecumenismo. Non un ecumenismo del sangue, ma un ecumenismo valori cristiani, partendo dalla considerazione che la composizione varia delle confessioni cristiane in Ungheria non è comunque ancora caratterizzata da quella secolarizzazione galoppante dell’Europa.
Papa Francesco arriva all’incontro con diplomatici e autorità dopo l’accoglienza a Palazzo Sandor, l’incontro con la presidente Novak, l’incontro con il Primo Ministro Viktor Orban, che gli ha detto che l’Ungheria sta “lottando per mantenere i valori cristiani in Europa”, e per questa guerra che “grida per la pace”.
Il discorso che il Papa fa di fronte agli esponenti del corpo diplomatico è un discorso tutto incentrato sulla città di Budapest, e che include ben cinque riferimenti alla Costituzione Ungherese e un copioso uso delle lettere del Re Santo Stefano.
Una città prima di tutto fatta di storia, dice il Papa, che ha in sé un passato celtico, romano, capitale dell’Impero Austro Ungarico, città oppressa dal nazismo e dal comunismo, teatro di feroci persecuzioni contro gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e anche di atti eroici proprio per salvare gli Ebrei, a partire da quelli dell’allora nunzio a Budapest Angelo Rotta.
In particolare, Papa Francesco ricorda che la città nasce nel 1873, cioè 150 anni fa, dall’unione delle tre città di Buda, Óbuda e Pest, e mette in luce come il processo che ha portato alla nascita della città richiami “il cammino unitario intrapreso dall’Europa”.
Papa Francesco nota che se l’Europa, insieme alle Nazioni Unite, ha rappresentato dopo la Seconda Guerra Mondiale la grande speranza di “prevenire ulteriori conflitti”, oggi “la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra”.
Insomma, sembra “essersi disgregato negli animi l’entusiasmo di edificare una comunità delle nazioni pacifica e stabile, mentre si marcano le zone, si segnano le differenze, tornano a ruggire i nazionalismi e si esasperano giudizi e toni nei confronti degli altri”, mentre la politica appare avere come effetto “quello di infiammare gli animi anziché risolvere i problemi”.
Papa Francesco ammonisce che “la pace non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti”, e sottolinea che l’Europa è “fondamentale” in questo, perché “rappresenta la memoria dell’umanità” ed è chiamata ad “unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico”.
Per Papa Francesco, è essenziale “ritrovare l’anima europea”, e cioè “l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi”. E aggiunge: “In questa fase storica i pericoli sono tanti; ma, mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?”
Quindi, Papa Francesco caratterizza Budapest come città di ponti, tra l’altro che si armonizzano al Danubio tanto che il Papa si complimenta per la cura ecologica del Paese. Per il Papa, tuttavia, i ponti sono soprattutto segno di “una unità che non significhi uniformità”, come in fondo deve essere l’Europa dei ventisette che “necessita del contributo di tutti senza sminuire la singolarità di alcuno”.
Il Papa sottolinea che c’è bisogno di una armonia che “non appiattisca le parti e di parti che si sentano ben integrate nell’insieme”, e per questo sottolinea di pensare ad una Europa “che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli”.
In quest’ultimo caso, il rischio paventato da Papa Francesco è quello delle “colonizzazioni ideologiche”, che “eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato ‘diritto all’aborto, che è sempre una tragica sconfitta”.
A questo, Papa Francesco contrappone l’immagine di una “Europa centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia, perseguite con attenzione in questo Paese, dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno”.
Il modello è quello del ponte delle catene di Budapest, che fa immaginare una Europa “formata da tanti grandi anelli diversi, che trovano la propria saldezza nel formare insieme solidi legami”, con il pontiere che è rappresentato dalla fede cristiana, considerando l’approccio ecumenico della nazione, e con un accenno particolare alla Abbazia di Pannonhalma, uno dei grandi monumenti spirituali di questo Paese, luogo di preghiera e ponte di fraternità.
Infine, Papa Francesco ricorda che Budapest è città di santi, a partire da Santo Stefano, il re di Ungheria, sua moglie, la Beata Gisella, il figlio Sant’Emerico. Una famiglia santa, con un re che, nelle raccomandazioni al figlio, mostrava sia un approccio globale che definiva “la libertà e la cultura degli altri popoli”, ma anche una integrazione delle minoranze nel Paese, secondo una prospettiva che Papa Francesco definisce come “veramente evangelica questa prospettiva, che contrasta una certa tendenza, giustificata talvolta in nome delle proprie tradizioni e persino della fede, a ripiegarsi su di sé”.
E, nota Papa Francesco, “dal primo Re, che stabilì le fondamenta del vivere comune, si passa a una Principessa che eleva l’edificio verso una purezza ulteriore”, e cioè a Santa Elisabetta che morì dopo aver rinunciato ad ogni bene, dedicandosi “sino alla fine, nell’ospedale che aveva fatto costruire, alla cura dei malati: è una gemma splendente di Vangelo”. Al termine del discorso, Papa Francesco ricorda anche altri grandi confessori della fede: San Ladislao, Santa Margherita e anche “certe maestose figure del secolo scorso, come il Cardinale József Mindszenty, i Beati Vescovi martiri Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, il beato László Batthyány-Strattmann.
Il Papa ringrazia anche le autorità per “per la promozione delle opere caritative ed educative ispirate da tali valori e nelle quali s’impegna la compagine cattolica locale, così come per il sostegno concreto a tanti cristiani provati nel mondo, specialmente in Siria e in Libano”. È l’accenno al progamma Hungary Helps, che è nato all’interno di un vero sottosegretariato per la persecuzione dei cristiani.
Papa Francesco nota la fecondità di “una proficua collaborazione tra Stato e Chiesa” che però deve “salvaguardare le opportune distinzioni”, in modo di “non prestarsi a una sorta di collateralismo con le logiche del potere”, nell’ottica di una “sana laicità”, perché “chi si professa cristiano, accompagnato dai testimoni della fede, è chiamato principalmente a testimoniare e a camminare con tutti, coltivando un umanesimo ispirato dal Vangelo e instradato su due binari fondamentali: riconoscersi figli amati del Padre e amare ciascuno come fratello”.
Il Papa tocca alla fine il tema dell’accoglienza, che è forse il tema che più sembra distanziarlo dalla politica ungherese, e che si collega proprio a questo possibile collateralismo con lo Stato. La richiesta di fondo è di mantenere la prospettiva cristiana, perché “per chi è cristiano l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere”, e così “pensando a Cristo presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi”.
Si tratta, per il Papa, di un “tema da affrontare insieme, comunitariamente, anche perché, nel contesto in cui viviamo, le conseguenze prima o poi si ripercuoteranno su tutti. Perciò è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà. Ciò chiama in prima linea chi segue Gesù e vuole imitare l’esempio dei testimoni del Vangelo”.
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