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Un servizio di EWTN News

Guerra in Ucraina, la drammatica e commovente testimonianza di Shevchuk

L'arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk durante il collegamento con il Pontificio Istituto Orientale, 29 marzo 2022

Chernihiv, nel cuore della Rus’, è praicamente rasa al suolo; Mariupol è una città martire; Kharkiv è una città fantasma; Slavutych, vicino Chernobyl, è accerchiata. Uno dopo l’altro, l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, nomina gli scenari di guerra, noti e meno noti. E per tutti c’è una parola di speranza, che è poi la parola della Chiesa. Perché è la Chiesa che opera in questi scenari quasi disperati, in una guerra che dura ormai da più di un mese e che non solo ha messo in ginocchio l’economia del Paese, ma lo ha praticamente svuotato.

Quello che ho da dire potrebbe non piacervi”, dice l’arcivescovo maggiore in collegamento con il Pontificio Istituto Orientale, che organizzato lo scorso 28 marzo questo incontro che dà una finestra, cruda e senza sconti, sulla guerra in Ucraina. Shevchuk parla con la voce che si fa sempre più insicura, lotta dall’emozione e a volte dalle lacrime. E si capisce che è prima di tutto un vescovo che si fa coraggio per stare con la sua gente, che manda un videomessaggio al giorno per rassicurare la sua gente (“vogliamo dire che siamo vivi”, spiega), che cerca di guardare oltre la situazione contingente perché la sua missione è quella di essere “predicatore di speranza”.

Il suo discorso arriva a vedere la realtà da un punto di vista differente. A partire dalla situazione nel Donbass, regione russofona che i russi sarebbero andati a liberare da un presunto genocidio degli ucraini.

“Lì – racconta Sua Beatitudine – si sono verificate deportazioni forzate della gente dai villaggi in cui vivevano sin dall’inizio della guerra, e a cui Caritas Ucraina portava aiuti. Si parla di 40 mila deportati, che vengono spostai in un territorio controllato dalla Russia. Quindi, viene loro tolto il passaporto e ricevono un documento provvisorio che li costringe a lavorare nella isola Sakhalin nell’Oceano Pacifico, vicino al Giappone, senza possibilità di abbandonare questo territorio per due anni. Questo ci fa ricordare le deportazioni di Stalin in Siberia”.

Shevchuk sottolinea che l’attacco è stato uno shock (“Mai avrei pensato di essere il capo di una Chiesa durante la guerra”), ma che era ben pianificato. “Proprio nei primi giorni di guerra – racconta – abbiamo scoperto che tutti noi leader religiosi eravamo in una lista di persone da eliminare, e che da tempo nella nostra comunità parrocchiale c’erano infiltrati che si sono rivelati essere gruppi di assalto. Questi ‘terroristi’ sono stati individuati anche tra i cantori del coro e i gruppi giovanili. Avevano istruzioni ben fatte, preparate. Abbiamo scoperto che cercavano di disseminare trasmettitori magnetici intorno alla nostra cattedrale, che sarebbe diventata così obiettivo per gli attacchi”.

I primi giorni di guerra sono stati particolarmente drammatici. I sotterranei della cattedrale greco cattolica della Resurrezione di Kiev sono diventati rifugio per quanti erano rimasti bloccati sulla sponda sinistra del Dnepr, impossibilitati a tornare in centro. “La prima notte di guerra – ha detto Sua Beatitudine - sotto la nostra cattedrale nelle nostre cripte abbiamo ricevuto 500 persone a mani vuote, abbiamo pensato come aiutarle ed è interessante come questi gruppi di assalto volessero entrare nei rifugi per sparare”.

Per il capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, è miracoloso come il popolo ucraino abbia resistito, che la città di Kiev sia ancora viva. E brama miracoli, ringrazia il Papa per la consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria.

Servono miracoli perché, al di là dell’eroismo sorprendente del popolo ucraino, anche a Kiev, dove “la vita sta rinascendo”, sono andati via due terzi delle persone. Il sindaco di Kiev ha detto a Sua Beatitudine: “Più del pane, più dei vestiti, abbiamo bisogno di parole di conforto e di speranza, e queste ce le può dare solo la Chiesa”. Il sindaco ha anche invitato Papa Francesco ad andare a Kiev, nel mezzo della guerra.

Se c’è una speranza, quella è appunto nella Chiesa. Sua Beatitudine si dice “fiero dei suoi sacerdoti che sono rimasti nelle loro parrocchie”. Ce ne è uno, in particolare, che si trova a Slavutych, città accerchiata al punto che è troppo difficile evacuare. Sono tre giorni che non ha sue notizie, la moglie ha dato alla luce il terzo figlio in una situazione drammatica, senza luce, senza supporti medici funzionanti. “Ho cercato di farlo scappare, con la sua famiglia. Mi ha detto: lei è il mio vescovo e ho avuto da lei il mandato di curare questa parrocchia. Non posso lasciare la mia gente”, racconta Shevchuk.

Intanto, 200 mila soldati russi sono in territorio ucraino, cercano di distruggere le infrastrutture vitali, in particolare laddove arrivano gli aiuti alimentari e gli ospedali, portando avanti quella che Shevchuk chiama “una guerra di distruzione totale”, al punto che hanno lanciato 1300 razzi in questo mese di guerra, mentre in Siria ne sono stati lanciati solo 30 in tutti gli 11 anni di conflitto.

“Cosa fa la Chiesa? – continua l’arcivescovo maggiore -. La Chiesa prega, accoglie. Abbiamo diviso il territorio di Ucraina in tre zone. La prima zona è la zona dei combattimenti, che è la zona della più grande catastrofe umanitaria. Si cerca di facilitare l’evacuazione della gente, ma anche l’arrivo degli aiuti umanitari. A volte non si riesce, per via dell’opposizione dell’esercito russo”.

Quindi, ci sono le zone di vicinanza. Sono – dice Sua Beatitudine - “zone di primo rifugio, per poter dormire la prima notte di fuga, perché viaggiare in Ucraina è oggi è un inferno, ci vogliono due giorni per fare tragitti che si percorrevano in 4 ore. In questi punti di accoglienza diamo tutto quello che possiamo: cibo, un rifugio caldo, ma anche benzina, difficilissima da procurare”.

In più “le nostre parrocchie sono diventate un hub umanitario. Facciamo arrivare gli aiuti in grandi camion, con camionisti coraggiosi che superano la paura e passano per sentieri segreti, in modo che arrivino a destinazione”.

La terza zona è la zona dove non ci sono ancora combattimenti, nelle zone di Leopoli, Ivano Frantivsk, Termopil, e lì i rifugiati trovano un posto dove fermarsi e dove decidere il loro futuro. “Molti di loro – dice Shevchuk – non vogliono abbandonare l’Ucraina, aspettano di tornare a casa. Alcuni decidono invece di oltrepassare la frontiera. Si dice che ci sono 3 milioni di rifugiati”. Per quelli che resteranno, si dovrà trovare un lavoro, e per farlo si dovrà far ripartire una economia distrutta.

Ma c’è anche un tessuto religioso distrutto, con due edifici di culto distrutti in media al giorno, specialmente del Patriarcato di Mosca.

La questione ecumenica è complessa, perché il Patriarcato di Mosca aveva rotto ogni relazione con il Patriarcato di Costantinopoli a seguito della concessione dell’autocefalia della Chiesa Ortodossa Ucraina. Ma il metropolita Onufry del Patriarcato di Mosca ha anche condannato l’aggressione russa, mettendosi in una posizione opposta al Patriarcato di Kiev.

L’arcivescovo maggiore Shevchuk ha più volte chiesto un incontro personale, senza pubbliche relazioni, ma “è stato rifiutato”. I rapporti, però, si mantengono con un rappresentante della Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca che fa parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese e delle Organizzazioni Religiose in Ucraina.

Per Sua Beatitudine, non è tempo di distinzioni teologiche o politiche. Dice di “ammirare il coraggio dei vescovi di questa Chiesa che hanno apertamente condannato la posizione del Patriarcato di Mosca”, e ricorda che “per la loro Chiesa non sono momenti facili, molti li considerano aggressori, e questa Chiesa vive dentro di sé questa situazione e non sappiamo quali conseguenze per questa Chiesa porterà la guerra in Ucraina”.

Noi – conclude – “siamo solidali non possiamo in nome dell’ideologia sacrificare vite umane. Siamo pastori, non chierichetti con potere. Siamo pastori che saremo giudicati nell’ultimo giorno proprio per questo. Anche se non c’è stato un incontro personale tra i capi, per il momento penso che la cosa più importante sia la nostra azione pastorale concreta per la gente che soffre. E in questa azione siamo solidali, abbiamo gli stessi sentimenti nei nostri cuori”.

L’incontro era stato aperto dal Cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, che ha ricordato come “quelli che dovevano essere anni per guardare al futuro nelle ultime settimane si sono trasformati in un triste ritorno al passato, non soltanto della Chiesa greco cattolica ucraina ma del mondo intero che sembra non aver imparato l’errore creato dalla devastazione delle guerre”.

Il Cardinale ha però anche sottolineato che “il tempo del grande digiuno quaresimale ci conduce a solcare le stesse orme del Cristo ultima parola sulla sua vita non sarà la croce e il sepolcro, ma quella della resurrezione all’alba del mattino di Pasqua”.

Il Cardinale Michael Czerny, prefetto ad interim del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ha ricordato le sue esperienze come inviato del Papa in Ungheria e Slovacchia per portare la voce della Santa Sede in quelle zone di soccorso dei rifugiati, definendo tutti quelli che prestano soccorso come “angeli eroici”.

Andriy Yurash, ambasciatore di Ucraina presso la Santa Sede, ha lodato il lavoro della Chiesa Greco Cattolica nella società, come aiuto umanitario, ma anche per il supporto che danno come cappellani degli eserciti. Ha ricordato che da sempre l’Ucraina è territorio di diversità religiosa e multiculturale, e ha detto che gli ucraini non chiedono altro che “la possibilità di avere le scelte e di essere liberi di poter cambiare le loro scelte”.

L’evento è stato completato da due testimonianze di Caritas Ucraina e Caritas Italia. In particolare, Marco Pagnello ha sottolineato che si deve guardare anche a “quanti in Russia sono già in difficoltà, dei quali ancora non abbiamo notizia. Saranno anche loro i nuovi poveri”.

(La storia continua sotto)

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