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Un servizio di EWTN News

Abusi, la Chiesa non può essere denunciata. Ma le vittime non ci stanno

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a Strasburgo

Era quasi scontato che non sarebbe finita. Così, dopo la decisione della Corte Europea dei Diritti Umani del 12 ottobre scorso, un gruppo di 24 vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti cattolici ha fatto ricorso alla Grane Chambre per chiedere di ribaltare la sentenza, e dunque stabilire che la Santa Sede può essere ritenuta responsabile degli abusi dei sacerdoti e dunque incriminata.

La Corte aveva stabilito che la Santa Sede non solo non poteva essere incriminata perché godeva dell’immunità degli Stati sovrani, ma non poteva nemmeno essere ritenuta responsabile dell’eventuale comportamento inadeguato dei vescovi belgi, né degli abusi.

Le vittime si erano rivolte alla Corte Europea dopo aver perso il ricorso contro i tribunali belgi. Hanno deciso di arrivare fino all’ultimo grado di giudizio, in una battaglia legale potenzialmente dispendiosa ma che trova il conforto di molte altre campagne simili.

I casi di abuso hanno infatti portato, da più parti, proprio all’idea di denunciare la Santa Sede, e persino di portare a testimoniare il Papa, o di considerare il Papa come responsabile perché i sacerdoti sarebbero suoi dipendenti. Era una strategia degli avvocati di creare clamore mediatico, forse, e cercare comunque di ottenere il massimo di risarcimenti. Ma, in questa strategia, si trova anche nascosto un attacco alla sovranità della Santa Sede.

Ad ottobre 2021, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva preso la decisione con il parere favorevole di sei giudici contro uno. Nella sua decisione, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha sottolineato che la Santa Sede è riconosciuta avere gli attributi comune di uno Stato sovrano, e che ha relazioni diplomatiche con 185 Stati nel mondo.

Era stata richiesta una eccezione all’immunità per quanto riguarda di casi di azione per risarcimento monetario nel caso “di morte e danno fisico di una persona, o in caso di danno e di perdita di proprietà”.

Una eccezione che non può essere applicata per varie ragioni, ha spiegato la Corte, sottolineando che il Papa “non è il datore di lavoro dei vescovi”, e che la Corte non si può sostituire ai Tribunali nazionali, considerando “che la loro decisione sul tema non è stata arbitraria o evidentemente non ragionevole”.

Unico parere dissenziente, quello del Giudice Darian Pavli, albanese, il quale ha messo in discussione il fatto che i tribunali belgi abbiano “accettato completamente” l’argomento sulla non dipendenza dei vescovi dal Papa, e affermato che “i tribunali locali hanno l’obbligo di delineare in maniera adeguata le ragioni legali e fattuali delle loro decisioni”, e che “i tribunali belgi non lo hanno fatto in relazione alle contestazioni di responsabilità vicaria”.

Il caso è conosciuto come J.C. ed altri vs. Belgio, ed è originato da una denuncia di un gruppo di 24 persone (belgi, francesi e olandesi) contro il Vaticano, ma anche contro leader cattolici e associazioni del Belgio. I 24, che dicono di aver subito abusi sessuali da preti cattolici quando erano bambini, hanno cercato di iniziare una causa civile contro il Vaticano per aver affrontato gli abusi del clero in “maniera strutturalmente deficiente”.

Il processo è iniziato nel luglio 2011, quando i denuncianti hanno iniziato una class action nella Corte di Prima Istanza di Ghent. La richiesta era di un risarcimento di 10 mila euro l’uno per le sofferenze causate loro da preti e membri di ordini religiosi. Nel 2013, la Corte ha detto che non aveva giurisdizione.

La Corte di Appello di Ghent, nel febbraio 2016, ha confermato il giudizio. Non c’è stato un ulteriore appello alla Corte di Cassazione, anche perché un avvocato aveva detto che sarebbe stato improbabile che questo avrebbe avuto successo. Venti persone del gruppo di denuncianti ha comunque ottenuto un risarcimento attraverso un centro di arbitrato per le denunce di abusi nella Chiesa, mentre quattro hanno deciso di continuare la loro battaglia, e si sono rivolti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 2 febbraio 2017, sostenendo che riconoscere l’immunità della Santa Sede aveva impedito loro di portare avanti il procedimento civile.

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