Milano, 03 October, 2020 / 2:00 PM
Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, lo spiega con parole precise: “l’accordo Cina – Santa Sede sulla nomina dei vescovi è un accordo “pastorale”, che non ha né risvolti politici né diplomatici, ed è stato siglato nella consapevolezza che ci sono “molti altri problemi riguardanti la Chiesa Cattolica in Cina”, ma non è stato possibile affrontarli tutti insieme.
Il segretario di Stato vaticano parla al Pontificio Istituto di Missioni Estere di Milano, in occasione di un convegno che ne celebra i 150 anni di presenza in Cina. E, in una articolata prolusione, inquadra l’accordo del 22 settembre del 2018 in una storia di relazioni difficili e altalenanti, non mancando di sottolineare che ci sono stati anche errori, ma anche ricordando che già Pio XII puntava ad un accordo dopo che si era affermato il comunismo in Cina, e sottolineando che Benedetto XVI aveva approvato lo schema dell’accordo poi effettivamente siglato da Papa Francesco.
Le ragioni dell’accordo, spiega il Cardinale, sono duplici: quello di permettere alla Chiesa di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società, ma anche di “consolidare un orizzonte internazionale di pace”. Un accordo che guarda al futuro, insomma, secondo una linea “che da Benedetto XVI porta a Papa Francesco. una linea rivolta più al futuro che al presente, più alla Chiesa che deve crescere in Cina che ai contenziosi di ieri ed oggi”, continua il Segretario di Stato vaticano.
Nella sua prolusione, il Cardinale Parolin sottolinea che il dialogo tra Cina e Santa Sede ha radici antiche, che affondano addirittura al gesuita Matteo Ricci, il quale – aveva spiegato Papa Francesco – era entrato con i suoi compagni prima nella cultura locale e poi hanno cominciato l’evangelizzazione, secondo una modalità di evangelizzazione che fu portato avanti anche da Roberto De Nobili in India. Il Papa si domandava: dato che sono tutti italiani, gli italiani sanno universalizzare?
Il Cardinale Parolin parte da qui per sottolineare che il cammino del dialogo con la Cina del PIME è stato principalmente italiano, tanto che i primi missionari, arrivati nel 1870 nella provincia di Henan, notavano “l’ostilità delle classi sociali, che vedevano il loro lavoro come imposizione delle potenze europee”, e ci furono anche iniziative per cacciare i missionari e impedire le conversioni per “motivi non religiosi, ma di avversità verso lo straniero”.
I missionari del PIME segnalarono la necessità di fare un Sinodo della Chiesa di Cina e mandare un legato pontificio per stabilire rapporti con Pechino, anticipando in qualche modo la linea inaugurata da Benedetto XV con la Maximum Illud. e lavorarono sia nelle classi popolari, ma anche nelle classi più alte, fino a potersi stabilire nella capitale Kaifeng, che monsignor Giuseppe Tacconi, vicario dell’Henan orientale, fece poi diventare la sede di una nuova prefettura apostolica, perché “la fede è sempre stata propagata dalle capitali”.
Monsignor Tacconi fece anche di più, arrivando a proporsi come paciere tra i militari del Wuchang contro il governo di Pechino, i quali firmarono un accordo di pace nella cittadella cristiana di Kinkiang.
La lettera apostolica Maximum Illud di Benedetto XV dà una svolta al dialogo. Benedetto XV aveva scritto la lettera apostolica pensando proprio alla situazione cinese. L’invio di Celso Costantini in Cina, che portò avanti i dettami di quella lettera apostolica, portò a realizzare nel 1924 il primo Sinodo Cinese.
E anche il PIME cambiò prospettiva. Padre Paolo Manna, superiore generale del PIME, compie un lungo viaggio nelle missioni orientali tra il 1927 e il 1929, e scrisse le “Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione”.
Il cardinale Parolin sottolinea che padre Manna chiedeva un “rinnovamento rivoluzionario” delle missioni, mettendo in luce quattro problemi: occidentalismo dei missionari; l’azione di denazionalizzare dei cattolici locali; le carenze di formazione de clero autoctono, la scarsa penetrazione nella società locale e della cultura.
Padre Manna, prosegue il segretario di Stato vaticano, metteva in luce che le missioni erano “organismi esteri, finanziati da denaro estero, appoggiati da governi esteri. Si doveva fondare una Chiesa locale”.
Ed è questo, spiega il Cardinale Parolin, anche l’obiettivo di oggi. Il Cardinale esalta l’impegno dei missionari del PIME a fianco della popolazione durante la guerra sino-giapponese del 1937, e nota che proprio allora i missionari “sperimentarono gli effetti di una diffidenza verso lo straniero”.
Il cardinale Parolin continua con la storia della Chiesa in Cina: ricorda l’arrivo dell’internunzio Antonio Riberi a Nanchino nel 1946, ma anche la creazione nello stesso anno del primo cardinale cinese, Thomas Tein Ken-sin, arcivescovo di Pechino, così come la nome del primo vescovo cinese di Shanghai, Ignazio Kung Pin-mei, nel 1950.
Ma il cardinale si sofferma anche sul fatto che l’atteggiamento di Pio XII, della Segreteria di Stato e di Propaganda Fide sono stati, nel periodo del passaggio alla Repubblica Popolare di Cina, prudenti e improntati sulla sollecitudine pastorale, non politica.
Pio XII – ricorda Parolin – “chiese ai missionari di rimanere al loro posto anche a prezzo di grandi sacrifici”, ma quando l’1 luglio 1949 scomunicò i comunisti – decisione “legata ai processi ai vescovi cattolici delle Chiese orientali” – la Chiesa cattolica in Cina “diventa più vulnerabile” e viene persino accusata di “voler cominciare una crociata anticomunista”.
Già dal 1947, Kaifeng è in mano ai comunisti. L’arcivescovo Gaetano Pollio nel 1951 viene “arrestato, processato e incarcerato”, e la sua nomina fu anche parte dell’interrogatorio dell’internunzio Riberi a Nanchino.
Vengono così espulsi i missionari straniera, e la domanda era – ricorda il Cardinale Parolin – se “la Chiesa cattolica sarebbe scomparsa dalla Cina”, in quanto “molti erano convinti che le Chiese cristiane non sarebbero vissute con l’allontanamento dei missionari e con i soli convertiti, e che i cattolici cinesi sarebbero diventati meno cristiani”.
I cattolici, d’altro canto, erano pressati ad accettare il principio delle Tre Autonomie (autogoverno, autofinanziamento e autopropaganda). Il vescovo Pollio designa Stefano He Chun Ming, come successore, che era il primo prete cinese ordinato a Kaifeng. E Chung Ming “aderì inizialmente al Movimento delle Tre Autonomie”, ma poi ritrattò con una dichiarazione pubblica. Il suo obiettivo era di cercare “vie di collaborazione che non provocassero né scismi né apostasie, portando avanti la linea di non rompere con nessuno”.
D’altra parte, “la maggioranza dei cattolici cinesi rifiutò il principio delle Tre Autonomie”. Questo portò – ricorda il Cardinale Parolin, - ad un cambiamento della politica verso di loro, pressati dalla nozione che il patriottismo è un dovere di ogni cattolico.
Si inseriscono in questo quadro gli interventi di Pio XII, che nella Cupimus Imprimis del 1952 rassicura che la fede cattolica “non contraddice a nessuna dottrina che sia vera” e che “non si oppone alla naturale indole di ogni popolo, ma benevolmente li accoglie”. Nella Ad Apostolorum Principis del 1958, poi, condanna le ordinazioni illegittime. Ma è anche vero, nota il Cardinale Parolin, che molti di questi vescovi ordinati illegittimamente hanno poi chiesto, e si sono visti concedere, il perdono papale.
Certo, il Cardinale Parolin ci tiene a sottolineare che “dopo la partenza degli ultimi missionari dalla Cina nel 1954 non è nata in Cina una Chiesa del silenzio, perché non è una Chiesa del silenzio quella che tanti ostacoli annuncia il Vangelo”. E sottolinea che “sono state perse molte battaglie difficili, ma anche battaglie che si sarebbero vinte con più buona volontà”, ma che “è stata vinta la battaglia più importante: Fidem Servare”.
E una di queste battaglie forse è l’accordo tra Chiesa e Pechino già ai tempi di Pio XII. Racconta il Cardinale Parolin. “Il 17 gennaio 1951, le autorità cinesi invitarono cattolici e alcuni ministri ad un incontro, cui partecipò anche il ministro degli Esteri Chuen Lai, il quale disse che i cattolici dovevano assicurare piena lealtà patriottica al Paese pur seguendo del Papa. Si cominciò allora a stendere un documento che potesse trovare una quadra del cerchio. Dal tempo di Pio XII la Santa Sede avvertì l’esigenza del dialogo, anche se le circostanza di allora lo rendevano difficile”.
Si fecero quattro stesure dell’accordo, ma “nessuna fu soddisfacente” e al fallimento dell’accordo contribuirono “oltre alle tensioni internazionali, anche le incomprensioni tra le due parti e la sfiducia reciproca ed ha segnato tutta la storia successiva. Si sono dovuti aspettare molti anni”.
Il cardinale Parolin poi mette in luce che Benedetto XVI già nella lettera ai cinesi del 2007 auspicava l’apertura di uno “spazio di dialogo con la Repubblica Popolare Cinese”, e approvò il progetto di accordo che si è firmato nel 2018.
(La storia continua sotto)
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“Molti malintesi – lamenta il Segretario di Stato vaticano - nascono dall’attribuzione all’accordo di obiettivi che tale accordo non ha oppure alla riconduzione ad eventi della Chiesa in Cina che sono estranei o a collegamenti con questioni politiche che non hanno a che fare con l’accordo”.
Si tratta, specifica, di un accordo che “concerne esclusivamente la nomina dei vescovi”, questione che “ha fatto più soffrire i cattolici in Cina per sessanta anni. Oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma, Papa Francesco ha accolto gli ultimi vescovi illegittimi non ancora riconosciuti”.
Il cardinale Parolin nota anche che la linea del dialogo e della non comunione con il Papa era dovuta a vescovi “formati dai missionari, che conoscevano la loro missione e la loro fede”, come nel caso dell’ordinario di Kaifeng. Ma, concede, “nella maggioranza dei casi i missionari non si sono sbagliati a riporre fiducia, tanto che molti di loro hanno chiesto il perdono del Papa. Ciò mostra che al fondo il loro cuore non era mutato e la loro fede non era venuta meno”.
L’accordo deriva dalla necessità di “risolvere il problema” delle ordinazioni illegittime, e “l’esperienza di decenni” fa capire che serve un accordo, che però ha un obiettivo “ecclesiale e pastorale, per scongiurare l’eventualità di altre ordinazioni illegittime”.
Certo, il percorso è lungo – ammette il Cardinale Parolin – ma “perché il dialogo possa dare frutti consistenti è necessario di continuarlo e si spera sia rinnovato ad experimentum”. Intanto, ci sono stati “segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi su questioni su cui per molto tempo sono stati divisi”. A loro – spiega il Cardinale – il Papa “affida in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli, ponendo gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato. I cattolici in Cina potranno testimoniare la propria fede, per aprirsi alla promozione della pace”.
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