È stata la prima nazione a proclamarsi cristiana, ma la Santa Sede ha potuto allacciare le relazioni diplomatiche solo 25 anni fa, quando l’Armenia era definitivamente uscita dal blocco sovietico. Sono “nozze d’argento”, che vanno celebrate. E lo fa il Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, in una Messa durante la quale definisce le relazioni tra le due nazioni “un dono di Dio”.
Qual è il destino del popolo armeno? “Una vita di pietra e tenerezza di madre”, ha detto Papa Francesco, nel volo di ritorno dai 3 giorni di viaggio nella prima nazione cristiana. La verità è che il popolo armeno ha avuto anche 36 soldati per difendere la fede. Soldati che hanno costruito la nazione, che non solo è stata la prima a proclamarsi cristiana, ma che probabilmente è il vero “popolo del libro” in tempi moderni. Perché il libro per gli armeni è tutto, e permea la religiosità popolare.
La visita al monastero di Khor Virap, l’ultimo appuntamento in terra armena di Papa Francesco. Una preghiera con il Catholicos, la benedizione e infine il volo di due colombe in direzione Monte Ararat, per concludere questo 14 viaggio apostolico nel segno e nell’augurio della pace.
C’è un’opera di misericordia che Giovanni Paolo II ha donato all’Armenia, e che è lì, tra le montagne del Caucaso, quasi al confine con la Georgia. Si chiama “Redemptoris Mater”, è un ospedale gestito dai Camilliani, ma è comunemente noto come “l’ospedale di Giovanni Paolo II”. A questo ospedale, Papa Francesco ha fatto riferimento nei ringraziamenti finali della messa a Gyumri. E lo avrebbe probabilmente visitato, se il programma non fosse stato così chiuso.
Sono due orfani dal volto sofferto, magrissimi, che cercano casa, quelli rappresentati nella scultura in bronzo che le suore Armene dell’Immacolata Concezione hanno fatto preparare per Papa Francesco. Dopo la celebrazione nella piazza di Gyumri, Papa Francesco è andato infatti all’orfanotrofio Boghossian di Nostra Signora di Armenia. Un breve benvenuto, prima di un pranzo privato con il seguito e un momento di riposo.
Il vuoto di generazioni: è questo il segno più profondo che ha lasciato il Metz Yeghern, il “Grande Male”, come gli armeni chiamano l’uccisione sistematica del loro popolo che a più ondate si è scatenato a partire dal XIX secolo. Ma è anche il segno profondo che hanno lasciato 70 anni di regime comunista. Prima la distruzione di un popolo, poi il tentativo di distruggere la loro religiosità: è una qualcosa che va ben oltre la definizione del genocidio.
Sono pronte, una vicina all’altra, con i colori molto più vivi dell’originale: le due copie della Madonna delle Sette Piaghe, l’immagine che Papa Francesco venererà nella Cattedrale Apostolica delle Sette Piaghe a Gyumri, sono in quello che nel periodo sovietico è stato l’ufficio del vescovo locale. Una copia sarà data a Francesco, una copia al Catholicos Karekin II, perché – sottolinea Miqayel Ahjapayan, vescovo apostolico di Gyumri – “nemmeno il Catholicos ne aveva una copia”.
Quando si imbocca la strada per Khor Virap, che è anche l’unica strada che dalla capitale Yerevan porta fino all’Iran, l’Ararat è lì. La montagna su cui si posò l’Arca di Noè, da sempre parte della tradizione armena, con le sue due vette, la più piccola Sis e la più grande Massis, si staglia lungo tutto il percorso, e resta sullo sfondo del santuario che è nato intorno al pozzo dove Gregorio l’Illuminatore, colui che ha battezzato l’Armenia facendone la prima nazione cristiana, è rimasto per anni. Ma proprio quando si arriva al santuario, l’Ararat si presenta con tutto il suo paradosso: è lì, è vicino, ma è in territorio turco. La catena di alberi che si vede alle sue pendici è solo l’accesso ad un fiume che fa da confine. E il confine con la Turchia è chiuso.
La parola chiave è “genocidio”. Così dovrebbe essere definito il massacro degli armeni, che furono deportati dalla parte orientale della Turchia e uccisi in massa durante la I Guerra Mondiale. Gli armeni lo chiamano “il Grande Male”, la Turchia rifiuta la definizione tanto che ogni volta che uno stato la usa, c’è crisi diplomatica. Ma Papa Francesco non ha avuto paura a dirlo. E lo potrebbe dire ancora, secondo padre Georges-Henry Ruyssen, gesuita, canonista, che si è avvicinato alla questione armena grazie ad un incontro, e che ha curato sette volumi fitti di documenti, dispacci diplomatici, lettere che dimostrano come la Santa Sede non solo fosse al corrente, ma fosse anche l’unica potenza ad essersi davvero attivata per fermare quel massacro dimenticato. Papa Francesco sarà in Armenia dal 24 al 26 giugno, e per padre Ruyssen è possibile che il Papa userà di nuovo il termine genocidio. Come è anche possibile che il Papa parlerà di ecumenismo del sangue, un tema che a lui sta molto a cuore. Perché in fondo la storia si ripete sempre. E sono molti i punti in comune con i fatti di cento anni fa.
Una visita al memoriale che ricorda “il grande male”, ovvero il massacro degli armeni che all’inizio del XX secolo provocò 1 milione e mezzo di morti. Una preghiera per la pace, una dichiarazione congiunta e un pranzo ecumenico con la Chiesa apostolica armena, ovvero la Chiesa Cattolica Ortodosso Gregoriana, considerata una delle comunità più antiche del mondo. Una preghiera per la pace. Sono i momenti salienti del viaggio di Papa Francesco in Armenia, dal 24 al 26 giugno, il cui programma è stato diffuso oggi dalla Sala Stampa Vaticana.