Il Cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani che si occupa anche di rapporti con l’Ebraismo, ha sostenuto una volta che si dovrebbe sviluppare una teologia cristiana dell’ebraismo e una teologia ebraica del cristianesimo. Ritiene questo sia possibile?
Io ho sempre sostenuto la necessità di una riflessione ebraica anche dal punto di vista teologico sui nostri rapporti con il cristianesimo. Ma i modi in cui queste riflessioni si sviluppano nell’Ebraismo sono differenti dal modo in cui si sviluppano in un organismo, come la Chiesa, che ha un grande apparato dottrinale, una gerarchia e un capo che può organizzare queste cose. Da noi i modi e i tempi sono differenti. Certo, è importante stare attenti a quello che gli altri dicono, ma la teologia è un campo interno ad ogni religione. Ogni fede è a se stante, e soprattutto questi temi non sono oggetto di discussione politica, quindi bisogna lasciare tempi e spazi all’evoluzione delle proprie riflessioni. Ma credo che una riflessione teologica sia comunque necessaria.
Papa Francesco, rivolgendosi agli Ebrei, ha usato l’espressione “fratelli e sorelle maggiori”, ripercorrendo l’espressione di Giovanni Paolo II. Benedetto XVI preferiva l’espressione “Padri nella fede”. Lei quale espressione preferisce?
Per me va bene un concetto di fratellanza senza gradini atavici.
Comparando il discorso di Benedetto XVI in Sinagoga con quello di Francesco, ci sono alcune differenze. Benedetto XVI aveva parlato dell’Hesed, aveva posto come pietra comune il Decalogo, mentre Papa Francesco ha puntato molto di più su una collaborazione concreta su alcuni temi. Queste differenze rappresentano un passo avanti o un passo indietro?
Io non vorrei parlare di passi indietro o in avanti, ma di differenti sottolineature. La sottolineatura di Benedetto XVI era di tipo biblico, con il riferimento ai Dieci Comandamenti, e questo si correla con la sua personalità, i suoi interessi e le sue preferenze. Questo Papa ha insistito sul sociale, ha insistito sull’ecologia, ma ha sottolineato fortemente l’aspetto teologico del problema.
Recentemente, è apparsa sull’intervista all’Espresso un suo pensiero critico su Papa Francesco. In una intervista lei avrebbe sottolineato che le sottolineature di Papa Francesco sulla misericordia ripropongono l’idea dell’Ebraismo giustizialista…
L’intervista all’Espresso è stata un’avventura sciagurata per il titolista che ha deformato completamente il concetto che volevo esprimere, e che forse non è stato capito affatto. Ne approfitto per spiegare. Esiste una antica opposizione dottrinale tra l’immagine dell’Ebraismo giustizialista e il cristianesimo religione della misericordia. Una opposizione che rischia sempre di affacciarsi all’orizzonte. Questo è un rischio che inquina i rapporti ebraico-cristiani. Ma – e questo non è stato capito – Papa Francesco non ha messo le cose in contrapposizione. Di questo bisogna dargliene atto. Indicendo il Giubileo della misericordia, ha detto nei discorsi inaugurali che questo è un tema radicato nella Bibbia, con riferimento alla Bibbia ebraica. E quindi non ha messo le due cose in contrapposizione.
Durante la visita di Papa Francesco, ha suscitato applausi ed ovazioni l’intervento della presidente della Comunità Ebraica Ruth Durughello – con anche forti sottolineature sull’antisemitismo di chi attacca lo Stato di Israele, fondate sulle parole dello stesso Papa Francesco. Perché questo consenso?
Perché la presidente - che è presidente politica della comunità - ha voluto esprimere le necessità primarie, le sensibilità del nostro pubblico, che è profondamente turbato da quello che sta succedendo nella scena mediorientale e nello Stato di Israele e si sta riversando sull’Europa. La comunità ha ritenuto molto opportuno richiamare l’attenzione su questi problemi.
Il dialogo interreligioso tra Ebrei e Cristiani può aiutare al processo di pace in Medio Oriente?
Il fatto che ci siano rapporti sereni dal punto di vista religioso e anche nella comunanza tra gente delle due fedi è un ottimo presupposto per poter anche spingere sul piano politico.
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Come può la comunità ebraica aiutare Roma?
Noi siamo i più antichi romani ormai - non credo che possano esserci tanti romani che possano rivendicare origini di 22 secoli fa in questa città - e come tali siamo un riferimento essenziale nella storia. La comunità romana ha un ruolo importante in molte attività economiche, commerciali, professionali, sempre all’avanguardia nelle tematiche sociali, nell’attenzione, e rappresenta un riferimento essenziale su questioni di memoria, valoriali. Quindi Roma non può fare a meno della nostra comunità, e noi non possiamo fare a meno della nostra Roma.