In questo caso non possiamo lavorare in maniera proattiva. È proattiva quando abbiamo la comunicazione istituzionale, che possiamo anticipare. In questo caso dobbiamo stare molto attenti: è vero che qualcuno che parla di questo linguaggio che può creare qualche ambiguità, qualche perplessità. D’altra parte, io so che nella comunicazione ci sono rischi e non ci sono mai regole. La prova è nei viaggi di Papa Benedetto. Papa Benedetto aveva le domande delle conferenze stampa, che venivano selezionate e che venivano consegnate a lui prima che lui andasse dai giornalisti. Papa Francesco non vuole la selezione delle domande, e quindi non le conosce. Eppure, anche con questa diversità di modalità della gestione della comunicazione, tutti ricordiamo i grossi problemi di comunicazione di Papa Benedetto. Quando è andato in Africa, che fu un viaggio straordinario dal punto di vista apostolico, tutto il viaggio si è ridotto ad un problema che era il problema del preservativo. Questo è stato un errore madornale. Ma d’altra parte nella comunicazione ci sono dei rischi, e si corrono tutti. Ci sono dei rischi anche quando parliamo tra noi due in una intervista fuori dalla telecamere. Quindi bisogna stare molti attenti. Io leggo in queste domande spesso più un atteggiamento pregiudiziale nelle forme di comunicative di Papa Francesco, e se è un pregiudizio allora non ha neanche valore di domanda.
Tornando ai contenuti: lei ha parlato una volta delle necessità di includere dei corsi di retorica nei seminari per le omelie…
Ah sarebbe utile… Io credo che qui ci sono due problemi. Un problema di natura costitutiva: non si può far parlare il Vangelo nella contemporaneità, quindi spezzare la Parola, se questo Vangelo non è entrato nella mia vita. Non basta lo studio dell’esegesi. È necessaria la familiarità nella preghiera costante, perché come l’amico si svela all’amico, così la Parola si disvela al cuore confidente con la Parola. È necessario che l’omelia venga pensata non come un servizio che il prete rende alla gente, ma come anzitutto un modo in cui il sacerdote orienta la sua vita a partire dal Vangelo. Quindi, l’omelia deve vivere un richiamo alla spiritualità, al radicamento sulla parola di Dio. Però questo non basta: è necessaria anche la conoscenza della retorica. In fondo, basta pensare che l’advertising commerciale ha una raffinata competenza sulle forme retoriche proprio perché deve fare business. Noi abbiamo un valore ancora più importante, che è il Vangelo di Gesù. Allora perché non affrontare questa fatica nell’acquisizione delle forme retoriche? Una volta, cinquanta anni fa, nei seminari si studiava retorica, la sacra eloquenza… oggi purtroppo tutto questo non si fa, e si vede e si sente soprattutto quando si va nelle chiese ad ascoltare le omelie.
Il Vangelo ha bisogno di spin doctors?
Se questo termine fa riferimento a quello che usualmente significa, assolutamente no. Il Vangelo però è fatto delle cose che “sono state scritte perché voi crediate” come dice il Vangelo di Giovanni. Ma questo significa che molte altre cose non sono state scritte. E che cosa non è stato scritto? Tutto quel Vangelo che noi, discepoli di Gesù, dobbiamo ri-raccontare. Quindi il Vangelo ha bisogno di uomini, di donne, di anime, di cuore che diano testimonianza a questa parola, perché diversamente rimarrebbe una parola muta.
Facciamo un salto indietro nel tempo. Lei ha curato la comunicazione visiva come direttore del Centro Televisivo Vaticano nel periodo della rinuncia di Benedetto XVI. Come avete pensato a quella grande narrazione del viaggio in elicottero del Papa? In che modo è stato pensato e come l’avete poi sviluppato?
Papa Benedetto ha comunicato la sua rinuncia in un momento particolare e cioè due giorni prima dell’inizio Quaresima. È vero, era la festa della Madonna di Lourdes, ma credo che prevalga l’idea che fosse la soglia della Quaresima. Mi pare che Papa Benedetto volesse indicare a tutti che il suo gesto – un gesto potente, un gesto di grande umiltà, di grande coraggio – era un gesto con il quale supplicava la Chiesa di convertirsi e lasciarsi convertire da Dio. Il Mercoledì delle Ceneri Papa Benedetto fece un’omelia che assolutamente suona in termini di discontinuità rispetto al suo modulo omiletico. C’è un passaggio in cui dice: “Tutti oggi sono pronti a scandalizzarsi”. Poi fa una pausa, che significa per lui creare un’attesa di quel che sta dicendo, e aggiunge: “Ovviamente per i peccati commessi da altri”. In qualche modo Papa Benedetto ci dice: “Attenzione, che qui è una Chiesa che ha bisogno di togliersi la maschera e immergersi nuovamente nel dono dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose”. Mi sembrava che questa sua forza - questa sua richiesta, questa sua supplica che la Chiesa potesse essere non la Chiesa dei veleni, non la Chiesa delle contrapposizioni, ma la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica – in una parola questo suo messaggio dovesse essere raccontato mostrando l’aspetto più empaticamente umano di questo pontefice, che non era mai emerso fino a quel momento… perché era stato trattato male dai media, era letto pregiudizialmente come il grande censore della Chiesa. Invece Papa Benedetto è un uomo di grande attenzione, capace di curare le attenzioni personali, di grande spiritualità. Allora l’idea era proprio quella di dare anima, dare pathos, dare carne a questo pontificato.
E come si può raccontare tutto questo?
Abbiamo iniziato a raccontare gli affetti più semplici, più intimi… senza nascondere, per esempio, monsignor Georg Gaenswein che a un certo punto, appena si apre l’ascensore che accompagna Papa Benedetto al cortile di San Damaso, prende il fazzoletto per asciugarsi le lacrime. Perché questo dice la verità di un bene che una persona vuole all’altro… e poi questo viaggio… Ovviamente noi dovevamo trattare questo racconto come se fosse una traslazione. Cioè: è vero che Papa Benedetto non è morto, ma è anche vero che lì si chiudeva un pontificato. Ed è il motivo per cui abbiamo raccontato il viaggio in andata verso Castel Gandolfo, ma non abbiamo mai raccontato il viaggio di ritorno da Castel Gandolfo, perché sarebbe stato, dal punto di vista narrativo, raccontare la resurrezione di pontificato. Volevano raccontare la vicinanza del Papa alla sua gente, anche alle persone di Roma, quelli che lo vedevano tutti i mercoledì, e lo ascoltavano tutte le domeniche. Ed è il motivo per il quale abbiamo scelto di accompagnare l’elicottero del Papa con un altro elicottero. Un elicottero del Papa che quasi accarezzava i tetti delle case intorno a piazza San Pietro. Questi tetti che ancora hanno il sapore e il colore di una grande storia, di una grande tradizione, ma sotto il quale ci sono persone vive, persone che sanno amare, persone che sanno appassionarsi per le vicende dell’uomo. Fin quando Benedetto XVI arriva a Castel Gandolfo. Anche lì per esempio una cosa che abbiamo fatto è stata lasciare una telecamera dentro il Palazzo di Castel Gandolfo, per dire che non accompagniamo lì il Papa. Lo accompagniamo e lo accogliamo. L’idea è sempre dire qual è lo sguardo dello spettatore… e dunque lo spettatore vedeva non solo un Papa che veniva accompagnato, ma anche un Papa che entrava in casa, quasi a dire: “Anche io spettatore sono in casa che accolgo questo Papa”, Papa Benedetto. Queste sono alcune delle note di regia che abbiamo voluto esprimere per raccontare questa conclusione di un Papato che è appunto quello di Papa Benedetto.
Da Benedetto a Francesco: ultimamente Papa Francesco è stato protagonista di due eventi, diciamo quasi inusuali, questo incontro che ha fatto prima del viaggio degli Stati Uniti e poi prima del viaggio in Messico, via televisione, con coloro che non avrebbe potuto visitare durante il viaggio. Ci racconta qualche dietro le quinte: come è nata questa idea? E in che modo Papa Francesco l’ha affrontata?
Il viaggio negli Stati Uniti era molto importante. Gli Stati Uniti sono una nazione enorme, il Papa non può andare da tutte le parti, e soprattutto lì c’era il passaggio agli Stati Uniti da Cuba. E quindi con ABC si è costruita questa idea di far dialogare ragazzi di Cuba con ragazzi e ragazze degli Stati Uniti. Questo ha creato un po’ di vicinanza, in un processo che poi è andato sempre più alimentandosi. Questo non vuol dire che non ci sono più problem dopo la fine dell’embargo degli Stati Uniti a Cuba. Ma l’embargo è durato tanti anni, ci vorranno tanti anni per risolvere le questioni…
Anche il Messico è una nazione grande, e abbiamo immaginato che c’erano persone che non sarebbero potute venire ad alcuni appuntamenti perché abitano distanti. Allora abbiamo fatto in modo che queste persone si sentissero un po’ protagoniste di quel viaggio. Dietro le quinte ci sono sempre problemi un po’ tecnologici… ma il Papa li vive con grande vivacità, con grande generosità perché sa appunto tutto questo può aiutare ad accogliere non tanto il Papa, ma ad accogliere quanto il Papa racconta del Vangelo di Gesù: le parole di pace, di misericordia, di accoglienza reciproca… Sono momenti molto complessi e difficili da organizzare, ma poi alla fine anche molto utili.
Come vede la comunicazione vaticana da qui a 10 anni?
Non lo so perché non ho la sfera magica… io credo certamente dovremmo aprire degli spazi nuovi… penso ad esempio a quanto sia molto importante avere presso la comunicazione istituzionale, la Sala Stampa diciamo, un settore di Crisis Communication… penso anche a quanto sia necessario un dipartimento di comunicazione economico-finanziaria… siamo in un momento in cui la comunicazione interna alla Chiesa giudica e classifica quella esterna… e in un momento così, sempre più di trasparenza necessaria – perché questo permette a tutti noi di compiere bene il nostro lavoro – io penso che dovremo fare tanti passi. Quelli che ho descritto sono alcuni di quelli necessari e anche credo urgenti.
L’ultima grande sfida è questo lancio dell’estensione dot.catholic, che è stato annunciato. In cosa consiste esattamente? Cosa è?
Questo è un progetto che nasce nella Segreteria di Stato, o meglio in un coordinamento tra la Segreteria di Stato e il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali. Dot.catholic è l’idea di aggregare attorno appunto a un dominio il mondo cattolico. Non geograficamente, non dot.it, dot.fr, ma appunto coinvolgendosi tutti in una grande rete riconoscibile. L’ufficio è stato costituito su mandato della Segreteria di Stato: ha 6 persone e una rappresentanza all’ICAN. Qui bisognerà vedere anche quale sarà la risposta delle conferenze episcopali locali anzitutto, e delle grandi istituzioni cattoliche.
In che modo far vedere che la Chiesa cattolica è davvero universale oggi? Perché c’è il rischio di fermare tutto sulle immagini, e sulle immagini del Papa… ed ovviamente la Chiesa si identifica con il Papa, però forse manca questa visione universale della Chiesa…
Questo è un tema molto interessante. In questo grande portale che ci sarà, ci sarà uno spazio dedicato al racconto delle Chiese locali. Questo nasce perché c’è un servizio molto buono di Radio Vaticana che si chiama SEDOC, che raccoglie anche notizie delle varie iniziative delle Chiese locali. Anziché fare semplicemente una raccolta di notizie, pensiamo di trasformare questa raccolta in racconti delle chiese locali: Questo permette appunto di mostrare come la Chiesa è un popolo innanzitutto… è un popolo di uomini, di donne, di vecchi, di bambini che segue appunto il Signore Gesù e lo segue in tutto il mondo. Da questo punto di vista, questo è un aspetto su cui sono molto attento. Credo anche io che la comunicazione della Chiesa sia troppo secondo il modello tradizionale dal centro alle periferie. Invece appunto come dice Papa Francesco è dalle periferie che si vede meglio il centro.