Di certo, grande è stato l’impatto di Aung San Suu Kyi, che già una volta è stata da Papa Francesco. Oltre che delle relazioni diplomatiche, di certo si parlerà anche di alcuni temi che stanno a cuore ad entrambe le parti, come la situazione dei Rohingya, una minoranza musulmana di circa 1 milione e 100 mila persone che vivono nello Stato Rakhine, nel Nord del Myanmar. Negli ultimi mesi almeno 65 mila persone sono fuggite verso il Bangladesh, ma nessuno li vuole accogliere, e si è parlato anche di un'isola dove confinarli. Proprio alla vigilia del viaggio, Aung San Suu Kyi ha rifiutato un rapporto ONU che lamentava addirittura un genocidio di Rohingya nello Stato di Rhakine.
Ma chi è Aung San Suu Kyi? Figlia del generale Aung San, che fu ucciso dopo aver negoziato la libertà del Myanmar (o Birmania) dall’Inghilterra, ambasciatore in India per la sua nazione nel 1960, ha studiato a Oxford e poi a New York, dove ha lavorato nelle Nazioni Unite e ha conosciuto il marito. Tornata in patria nel 1988 per accudire la madre malata, si ritrovò nel mezzo del golpe militare del generale Saw Maung. Entrò in politica, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia e per questo fu ridotta agli arresti domiciliari. Nel 1990, quando la giunta militare indisse libere elezioni, ebbe una vittoria schiacciante, ma la giunta militare annullò il voto e prese il potere con la forza.
Rimase agli arresti domiciliari o comunque impossibilitata a lasciare la nazione fino al 2010, quando fu liberata. Nel 2012 è stata eletta nel Parlamento birmano. Ad ottobre del 2013 ha incontrato Papa Francesco. Nel 2015 ha vinto di nuovo le elezioni, con incarichi sempre più importanti nell’esecutivo. Tuttavia, la situazione in Myanmar è ancora lontana da quella di una piena democrazia.
Ma si tratta di un lavoro a piccoli passi. Per quanto riguarda l’apertura verso la Santa Sede, il cammino si potrebbe dire cominciato nel 1993, quando al missionario italiano Igino Mattarucco fu consentito di rientrare in Myanmar.
È stato nel 2016 che la strada è entrata in discesa, e forse non è un caso che questo sia avvenuto 50 anni dopo il biennio 1965-66 durante il quale il regime impose la nazionalizzazione di chiese, scuole ospedali e proprietà cattoliche, cacciando 239 missionari cattolici, nonché centinaia di missionari protestanti.
E sì che appena dieci anni prima, nel 1954, era stato nominato il primo vescovo di nazionalità birmana, U Win, e nel 1955 la Santa Sede aveva formato le due province ecclesiastiche di Rangoon e Mandalay. La terra era evangelizzata da due secoli, con la missione in Birmania nata nel 1700, affidata prima ai padri barnabiti e poi alle Missioni Estere di Parigi e del Pontificio Istituto di Missioni Estere.
Negli anni Sessanta, il tentativo di instaurare la “via birmana verso il socialismo” aveva creato un black out che era potuto riprendere solo a partire dal 1993. Oggi, la comunità cattolica del Myanmar conta 500 mila fedeli. Dal 24 maggio 2014, il missionario italiano Mario Vergara è stato beatificato insieme al catechista Isidoro Ngei Ko Lat, che è stato il primo martire birmano: furono trucidati insieme dalle forze ribelli che non disdegnavano la persecuzine anticattolica.
La progressiva apertura si è avuta anche con la liberazione di Aung San Suu Kyi, che ha poi vinto e rivinto le elezioni e ha avuto sempre maggiore impatto sulla vita politica del Paese, fino alle ultime elezioni del 2015, con un nuovo esecutivo che ha deciso di imboccare la strada delle riforme. Si pensa che presto sarà anche abolito l’articolo della costituzione birmana (il 50) che impedisce ad una donna di diventare presidente, schiudendo finalmente ad Aung San Suu Kyi le porte della massima carica dello Stato.
Con le nuove relazioni diplomatiche, la Chiesa locale punterà a migliorare lo status giuridico della Chiesa birmana, con l’apertura di un tavolo per riottenere le scuole nazionalizzate e confiscate nel 1962, una cinquantina di istituti in tutto.
Iscriviti alla nostra newsletter quotidiana
Ricevi ogni giorno le notizie sulla Chiesa nel mondo via email.